La strada che porta al monastero di Visoki Dečani, nel Kosovo occidentale, è disseminata di bandiere albanesi e statue dei membri dell’UÇK, il controverso movimento di liberazione kosovaro: eroi partigiani per gli albanesi, l’ex leader (e già presidente del Paese) Hashim Thaçi è però attualmente sotto processo all’Aja per crimini di guerra. L’UÇK combatté i serbi con una guerriglia fatta di attacchi repentini per poi sparire sulle montagne, dove era forte il sostegno della popolazione locale. «Vedi quella casa, lì una famiglia tenne da sola in scacco un intero battaglione di serbi», dichiara la guida mentre passiamo con l’automobile accanto a una delle tante abitazioni che costeggiano queste strade fuori dai centri abitati.
L’altra cosa di cui ci si rende conto girando è il debito di riconoscenza del Kosovo albanese verso gli Stati Uniti. Nella capitale, Pristina, c’è addirittura una statua di Bill Clinton, ma anche più a Ovest molti palazzi espongono vessilli a stelle e strisce. Un adesivo su una macchina recita «Proud to be American». Un aspetto (tra gli altri) che in Kosovo contrappone ovviamente la maggioranza albanese alla minoranza serba, che vede invece negli Stati Uniti la guida della Nato che bombardò Belgrado nel 1999.
L’organizzazione di difesa atlantica però è ancora molto presente in Kosovo attraverso la missione Kosovo Force (Kfor), che protegge anche il monastero di Dečani, poco distante da Peć (Peja in albanese). Un edificio patrimonio dell’Unesco, così come lo è quello di Gračanica (in albanese Graçanicë), più vicino alla capitale Pristina, nel centro del Paese.
«La nostra giornata inizia alle sei con le preghiere e termina con la preghiera delle 20.30», spiega Petr, il monaco delegato all’accoglienza degli ospiti e alla presentazione del monastero. All’ingresso i militari perquisiscono i visitatori, che devono lasciare un documento e il cellulare: vietate infatti riprese o foto. Questo monastero è una sorta di isola serba in mezzo a un territorio a maggioranza albanese. Durante la guerra fu però risparmiato e anzi accolse circa duecento albanesi.
La sua storia racconta molto del travaglio di questa regione. Il monastero di Dečani fu fondato intorno alla metà del 1300 dal sovrano serbo Stefano Uroš, martire e santo per la Chiesa ortodossa e fu completato dal figlio Dušan. Danneggiato nel 1389 dopo la battaglia del Kosovo tra serbi e turchi, nel 1455 cadde definitivamente sotto il dominio ottomano e così rimase fino all’inizio del ventesimo secolo.
Da lì subì una serie di cambi di regime: “liberato” dai montenegrini nel 1912, nel 1915 passò sotto i bulgari e quindi gli austriaci (venendo usato anche come magazzino militare). Nel 1918 ritornò ai serbi che lo restaurarono, ma il 20 aprile 1941 se ne impossessarono i tedeschi, che lo affidarono quasi subito ai carabinieri italiani, i quali lo protessero durante la guerra. In seguito, Tito espropriò molti dei territori circostanti.
«Non vogliamo parlare di politica, l’unica cosa che ci interessa sono i nostri diritti. Non si rispettano troppe leggi in Kosovo», afferma Petr, portando ad esempio una vicenda giudiziaria attualmente in corso: «Qui attorno ci sono ventiquattro ettari di terreno che il Tribunale kosovaro ha riconosciuto essere del monastero, ma le autorità locali non adempiono alla sentenza. Se non rispettano noi che abbiamo dalla nostra avvocati, media e tanto interesse, pensa cosa può fare una normale famiglia serba in Kosovo».
Ma le questioni con la comunità circostante sono anche altre: il 17 febbraio 2022, in occasione della quattordicesima festa dell’indipendenza kosovara, il monastero di Dečani scomparve da Google Maps: seguendo le indicazioni del motore di ricerca, si finiva in una rotonda nel centro della città, riportava Panorama, sottolineando il carattere intimidatorio del gesto.
«Un altro problema è che vorrebbero costruire una strada per il Montenegro facendola passare vicino a questo monastero, ma questo non si può fare per le leggi del Kosovo», aggiunge Petr. Non ci si stupisca quindi se i rapporti con il presidente Albin Kurti non siano idilliaci. «Qui non è mai venuto, anche se avrebbe voluto», afferma Petr. «Ma noi vogliamo i fatti prima, non concedere passerelle».
Petr parla bene un ottimo italiano, frutto delle conversazioni con i carabinieri italiani, che qui si alternano a protezione della struttura, e di un monaco del nostro Paese che ha preso il nome Benedikte: «Era un economista, è venuto qui per la prima volta come turista», racconta Petr. «Era un giovedì, il giorno dell’apertura della tomba di Santo Stefano. Dopo pochi mesi è tornato per restare».
Un caso non comune, quello di un monaco “straniero”. Le chiese ortodosse infatti sono organizzate su base nazionale, con ognuna che celebra e amministra nella propria lingua. Molti di questi monaci poi sono nati sotto il regime di Tito. «La mia generazione è cresciuta sotto il comunismo, per cui non appartengo a una famiglia religiosa», sottolinea Petr. «A vent’anni però ho iniziato a interrogarmi sul senso della vita e della morte. Nel 2002 sono entrato nei novizi ed eccomi qui».