«L’hai detto, segna otto punti!»
«Cos’avrei detto? Non fare il furbo con me. Non ho detto nulla di sbagliato e non devo segnare nessun punto. Sei tu che schiumi di rabbia perché sei secondo in classifica…» Al termine di questa frase, pronunciata con stizza eccessiva contro l’agente Portanova, Cavallito si rivolse a Gozzi. «Dai, tu sei testimone, cos’avrei detto che rientri nella lista?»
Gozzi, che sembrava immerso in carte importantissime, alzò la testa, come sorpreso, si stropicciò gli occhi e formulò la risposta che tutti si aspettavano. Era l’ultimo al mondo al quale si potesse chiedere di essere testimone di qualcosa. Aveva sempre nella manica il suo asso, quello che sfoderava al momento giusto, e nessuno, neanche il commissario, riusciva a capire se, in quel momento, dicesse la verità oppure no. Infatti, puntuale come la Tari, arrivò la sua risposta: «Non so di cosa parli, io dormivo.»
I suoi colleghi, quando lui non era in commissariato, avevano consultato manuali su manuali per rispondere alla domanda, astratta ma non retorica: come si capisce quando un narcolettico finge di dormire? Quella malattia, avevano scoperto, è causata da un’incapacità del cervello di regolare in modo naturale il ritmo veglia-sonno. Gozzi era un malato vero, non un mentitore o un lavativo. Prendeva con regolarità il modafinil alternandolo al metilfenidato, e a Portanova, il suo amico del cuore, aveva raccontato di soffrire di quella patologia fin da adolescente.
Se ne era accorto, la prima volta, al luna park. Aveva sedici anni e finalmente Giulia, la ragazza che lo faceva impazzire, una brunetta della Quarta B, aveva accettato il suo invito. Il giovane Gozzi era molto emozionato, aveva passato ore intere a scegliere i vestiti giusti prima di avviarsi all’appuntamento. Quando l’aveva finalmente vista capendo che anche lei si era preparata con cura, il suo cuore aveva cominciato a volare e gli si era depositato in gola, proprio a metà.
Erano saliti sul vagoncino delle montagne russe, lei era eccitata e non faceva che ridere. Gozzi invece stazionava nel panico, non per la velocità o la pendenza, ma perché capiva che dentro di lui stava succedendo qualcosa. Si ricordò di aver letto un libro in cui un signore gentile, che gli sembrava si chiamasse Jekyll, per effetto di una pozione si trasformava in un mostro cattivo, Mr Hyde, un tipo capace di efferati delitti.
Leggendo quelle pagine aveva pensato alla fragilità degli esseri umani, alla dimensione effimera del loro carattere, persone suscettibili di mutamenti così radicali per effetto di una semplice sostanza. Forse proprio grazie a quelle pagine del libro di Stevenson, di cui ricordava la lettura febbrile dell’Isola del tesoro, aveva deciso che nella vita il suo obiettivo sarebbe stato indagare i misteri della psiche umana: psicologo o poliziotto, che forse era la stessa cosa, o almeno così gli sembrava.
Ecco cosa sarebbe stato, da grande.
Il problema più immediato, sulle montagne russe, era però che quella pozione a lui sembrava di averla dentro di sé, e gli stava procurando un effetto micidiale. L’ultima immagine che gli era rimasta impressa sulla retina era l’espressione – che all’improvviso gli parve insopportabile – sul volto della brunetta che gli diceva: «Come mi diverto!».
Lui invece svenne, o almeno così credette. Quando riaprì gli occhi ricordò di aver fatto dei sogni mostruosi, di aver varcato porte che lo traghettavano verso esiti gelatinosi e ambigui, di aver incontrato persone melliflue che lo volevano ingannare proponendogli di imboccare percorsi che lo facevano precipitare nel nulla, con una sensazione di vertigine, nella caduta, che – spiegò poi a se stesso con realismo – doveva essere frutto delle discese e delle risalite a bordo del vagoncino.
Fatto sta che si svegliò mentre la salita ferrata si impennava, e si rese conto che Giulia non si era accorta di nulla e continuava a sorridere in quel modo un po’ irritante. Dunque lui aveva dormito. Non gli sembrava, però, di essersi assentato dalla realtà per tanto tempo.
Il suo era stato tuttavia un sonno profondo, popolato da incubi. O forse, si chiese Gozzi, era solo svenuto per poi riprendersi subito dopo? Ne avrebbe parlato ai genitori, che a loro volta ne avrebbero parlato con un medico, che ne avrebbe parlato con uno specialista, che ne avrebbe parlato con un centro diagnostico… che non ne parlò a nessuno, limitandosi a compilare un foglio di carta con su scritta una sentenza incomprensibile e definitiva: NARCOLESSIA.
Da “Buonvino tra amore e morte”, di Walter Veltroni, Marsilio, 224 pagine, 15 euro