Nuovo paradigmaNonostante la crisi in Sudan, soffia un’aria di pacificazione in Medio Oriente

Il crollo dell'influenza politica dei Fratelli Musulmani ha portato un appeasement generale delle relazioni tra vari paesi mediorientali. E un vorticoso sviluppo delle loro relazioni economiche sostenuto dalla Cina

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In Medio Oriente – fatta eccezione il Sudan – soffia una strana aria positiva, tanto forte da cambiarne completamente i connotati. In buona sostanza, tutti o quasi si riappacificano con tutti e si chiudono molti conflitti feroci che hanno dilaniato le nazioni mediorientali negli ultimi venti anni. La ragione profonda di questa pacificazione è poco citata dai media e dagli analisti e risale alla fine poco gloriosa dell’egemonia politica della Fratellanza. I Fratelli Musulmani infatti sono passati nell’arco di dieci anni dall’essere al centro del gioco politico in paesi arabi dal ruolo centrale a reietti della politica – non di rado in galera – a causa dei loro stessi fallimenti e inadeguatezza.

Il fenomeno è iniziato due anni fa quando il Qatar, motore immobile, sponsor e finanziatore della Fratellanza, è stato riammesso per volontà dell’Arabia Saudita nel Consiglio del Golfo dal quale era stato espulso tre anni prima proprio per le sue manovre destabilizzanti tramite i Fratelli Musulmani.

L’elenco di questo appeasement non è breve ed esalta il colpo di scena mediato dalla Cina: la ripresa dei normali rapporti politici e diplomatici tra Iran e Arabia Saudita, per decenni acerrimi nemici. Una grande novità a sé perché è l’unico processo di pace che non vede al suo centro i Fratelli Musulmani. Un colpo di classe della diplomazia cinese che ha saputo trarre profitto dallo stallo della guerra civile nello Yemen, causa non ultima dell’inimicizia tra le due nazioni. 

Gli altri appeasement degli ultimi mesi che hanno cambiato il volto del Medio Oriente ruotano invece tutti sulla – cattiva – sorte della Fratellanza. L’Arabia Saudita abbraccia ora Hafez al Assad e lo fa riammettere nella Lega Araba dopo che per dodici anni Ryad ha finanziato e supportato le milizie che lo combattevano. Ancora, l’Arabia Saudita allaccia le relazioni con Hamas, dopo averla contrastata violentemente perché affiliata ai Fratelli Musulmani. 

Da parte sua, la Turchia di Tayyp Erdogan  – che aveva accusato Mohammed bin Salman di essere l’assassino del giornalista Jamal Khassogi rovinandone l’immagine internazionale – celebra ora la «fratellanza storica» con l’Arabia Saudita e abbraccia l’autocrate di Ryad. Sempre la Turchia di Tayyp Erdogan porge ora la mano a Israele tanto che i due paesi hanno ripreso cordiali relazioni diplomatiche ed economiche dopo che per anni – il culmine fu la crisi della Mavi Marmara: dieci turchi uccisi da militari israeliani – il presidente turco ha usato di Hamas per sparare a non metaforiche palle di fuoco contro Gerusalemme. Infine, ma non per ultimo, l’embrassons nous tra Tayyp Erdogan e Abdel Fattah al Sisi che per quasi un decennio sono stati i protagonisti di un conflitto ad altissima tensione pro o contro i Fratelli Musulmani. 

Si chiude così, con una pacificazione generale delle relazioni tra vari paesi mediorientali – e con un vorticoso sviluppo delle loro relazioni economiche – la fase iniziata con le Primavere Arabe del 2011. Allora, la crisi di molti regimi arabi pluridecennali aprì la strada del governo ai Fratelli Musulmani – che non le avevano affatto innescate – che si impadronirono del governo, o tentarono di farlo, nei paesi arabi chiave.

Tayyp Erdogan in quegli anni si è proposto come leader universale della Fratellanza in una fase nella quale l’Islam politico, supportato dal Qatar sembrava egemone. Una egemonia incredibilmente vista con favore dalle Amministrazioni di Barack Obama che diedero prova di una cecità strategica raramente vista. 

Il blocco degli altri paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa, contrastò con energia quella tendenza. Ma ovunque, non solo in Egitto, ma soprattutto in Tunisia, in Marocco, in Sudan e in Algeria, i governi dei Fratelli Musulmani alla prova dei fatti si sono rapidamente dimostrati tanto inefficaci e corrotti quanto fallimentari. Non solo, il loro fiancheggiamento dei movimenti jihadisti ha favorito un’ondata di attentati terroristi che ha coinvolto anche la Francia, la Germania, l’Austria e altri paesi europei.

Eliminati, o meglio, auto eliminatisi, dal potere e dai governi, i Fratelli Musulmani si sono ridotti oggi quasi ovunque alla piena marginalità se non alla impotente clandestinità. L’arresto giorni fa in Tunisia di Rachid Gannouchi, presidente di Ennhada, cioè i Fratelli Musulmani tunisini, a suo tempo esaltato come eccellente leader da tanta stampa anglosassone, è il sigillo di questa rapida ed effimera traiettoria dal potere all’oblio.

Nel frattempo, gli Accordi di Abramo tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco, con la benedizione dell’Arabia Saudita, hanno eliminato dal novero delle possibilità uno dei fulcri della strategia araba e dei Fratelli Musulmani dal 1945 in poi: la distruzione dello Stato di Israele o quantomeno il duro conflitto permanente.

Al posto della conflittualità, Gerusalemme, dal 1979 impegnata in intensi scambi politici economici con l’Egitto, offre così oggi al mondo arabo l’alternativa di un mercato comune e uno sviluppo economico basato sulla gestione comune dei giacimenti di metano ma anche su grandi Joint ventures per una nuova industrializzazione basata sulle alte tecnologie. Un nuovo scenario nel quale si è persino arrivati all’accordo, impensabile sino a pochi mesi fa, tra Israele e Libano per lo sfruttamento comune dei grandi giacimenti metaniferi individuati al confine tra i due paesi.

È questo un processo lento, contraddittorio, ma ormai avviato. E non è un caso che la nazione perno di questa nuova fase mediorientale di pacificazione sia l’Arabia Saudita. Col suo progetto Vision 2030, Mohammed bin Salman mira infatti a innescare uno sviluppo economico non più solo basato sulle risorse delle fonti energetiche e sull’edilizia, ma anche e soprattutto sull’industria ad alta tecnologia.

Nei fatti, è iniziata una nuova fase di transizione in Medio Oriente verso una integrazione delle economie favorita da una pacificazione politica inter araba che può avere sviluppi fertili. Il tutto, va notato, nell’assenza totale di una strategia e di una presenza attiva degli Stati Uniti di Joe Biden.

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