Le ragioni della marginalizzazione L’inesorabile indebolimento della presenza americana in Medio Oriente

Gli accordi tra Cina e Arabia Saudita sulle forniture di petrolio danno l’ultimo colpo al prestigio degli Stati Uniti nell’area: Riyad e Pechino, come gli altri Paesi della penisola e la stessa Russia, hanno ormai un peso maggiore

AP/Lapresse

È sconcertante constatare quanto poco, quasi nulla, conti oggi la potenza degli Stati Uniti in Medio Oriente, e ancora più ricordare che questa assenza sia stata prodotta da una libera scelta di Washington, o meglio, delle ultime amministrazioni dei Democratici.

L’ultimo colpo al prestigio americano – e ancor più a quello personale di Joe Biden – viene ancora una volta dall’Arabia Saudita che, leader della Opec+, ha deciso di diminuire la produzione di petrolio di un milione e seicentomila barili al giorno provocando così un balzo del prezzo del Brent sopra gli ottanta dollari, e da qui a poco sino ai cento dollari.

Questo, dopo che pochi mesi fa Joe Biden è dovuto andare a Gedda a chiedere scusa a Mohammed bin Salman – l’aveva minacciato di farlo diventare un paria durante la propria campagna elettorale – durante un viaggio di riparazione che aveva un unico scopo: ottenere una notevole riduzione del costo del petrolio per contenere l’inflazione negli Stati Uniti. Obiettivo totalmente mancato. Anzi.

Ma la fine definitiva della strettissima e storica partnership privilegiata tra Washington e Riyad non è il solo segnale della marginalizzazione degli Stati Uniti in tutto il Medio Oriente. Mohammed bin Salman sta infatti concordando con la Cina – principale mercato di sbocco del petrolio saudita – il pagamento delle forniture in yuan, e non più in dollari, dopo che ha deciso l’ingresso dell’Arabia Saudita nella Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (Sco) organismo intergovernativo fondato da Pechino per promuovere la cooperazione in Eurasia negli ambiti della sicurezza, dell’economia e della cultura.

Di fatto, Mohammed bin Salman si muove ormai come una forte potenza regionale autonoma e considera cessati i rapporti di interdipendenza con gli Stati Uniti iniziati nel lontano 1945.

Ma il problema per Washington è che questo disinteresse per le direttive e le strategie americane è ormai generale in Medio Oriente. Basta guardare agli Emirati Arabi Uniti, che pure sono stati il perno degli Accordi di Abramo nel 2020, ultima iniziativa americana nella regione, e che da un anno sono il principale e solidale hub per la Russia di Vladimir Putin per aggirare le sanzioni energetiche volute da Washington.

Per non parlare della politica autonoma di Recep Tayyp Erdogan che è arrivato sino ad acquistare da Putin i potenti missili S-400, calibrati per contrastare gli armamenti Nato, che non applica le sanzioni alla Russia e che tratta direttamente con Vladimir Putin la sua politica nei confronti dell’Iran e della Siria.

Di fatto il Medio Oriente vede da una parte Israele e dall’altra tre potenze regionali forti, Arabia Saudita, Turchia e Iran che ne determinano alleanze, svolte (ora è la riabilitazione piena nella famiglia internazionale di quel macellaio di Bashar al Assad voluta sempre da Mohammed bin Salman) e strategie ben più in raccordo con la Cina e con la Russia che con gli Stati Uniti.

Il processo di radicale indebolimento della potenza americana dipende, dunque, direttamente da una scelta avviata dalle amministrazioni di Barack Obama e oggi proseguita da quella di Joe Biden e provocata da un calcolo miope. Un calcolo imperniato sulla politica di approvvigionamento energetico.

Nel 1945 la strettissima alleanza tra Stati Uniti e Arabia Saudita fu iniziata da Franklin Delano Roosevelt che incontrò al ritorno da Yalta – sull’incrociatore Quincy sui Laghi Salati – il fondatore del regno Abdulaziz ibn Saud per una ragione cogente: con la fine della Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti da esportatori erano diventati grandi importatori di petrolio. Da qui un’alleanza strettissima e l’impegno diretto di Washington a garantire la sicurezza dell’Arabia Saudita in cambio delle forniture energetiche, come si è visto nella prima guerra del Golfo nel 1991.

Specularmente, durante il suo mandato, settant’anni dopo, Barack Obama ha invece deciso di allentare al massimo i legami con il Medio Oriente perché grazie al gas di scisto (shale gas) e ai nuovi pozzi in Alaska gli Stati Uniti sono ridiventati non più importatori ma esportatori di energia.

Non la politica, ma banali calcoli economici, hanno così portato al totale disinteresse americano dopo il 2011 prima alla Libia (pur bombardata per far cadere Muammar Gheddafi nel nome della «guerra umanitaria»), poi alla Siria sconvolta dalla guerra civile, poi a tutto il Medio Oriente.

Una dottrina strategica di disimpegno dei Democratici basata unicamente su motivazioni energetiche opposta a quella di Harry S. Truman che nel 1947 e 1948 aveva addirittura sfidato con vigore i principali esponenti del suo stesso governo, George Kennan, James V. Forrestal, Loy W. Henderson e George Marshall che erano nettamente contrari alla nascita di Israele per timore di irritare gli arabi fornitori di petrolio e quindi avvicinarli all’Urss. Contro la strategia del proprio governo, Truman aveva imposto il pieno appoggio alla nascita dello Stato ebraico proprio ed essenzialmente perché sarebbe stata l’unica democrazia mediorientale in un mare di dittature. Una visione strategica di ampio respiro storico tutta e solo politica. Altri tempi.

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