«È trenta anni ormai che faccio vino, è trenta anni che faccio agricoltura». È trenta anni che Giovanna Tiezzi con il suo compagno di vita Stefano Borsa lavorano insieme ai figli Maria e Carlo per custodire l’eredità agricola di Pācina. Siamo nella località di Castelnuovo Berardenga, pochi chilometri a Est di Siena, sulle pendici meridionali dei monti del Chianti. Nato come monastero nel X secolo, le sue origini tuttavia risalirebbero a un’epoca più lontana, quella degli Etruschi. È l’etimologia del suo stesso nome a svelarla. «Pācina», toponimo del luogo, deriverebbe infatti dalla parola Pacha – Pachna, il dio etrusco del vino. Il suolo in Tufo di Siena, il terreno prevalentemente sabbioso con presenza di limo, argille e sassi tondi e la sua esposizione al sole, alla luce e al vento hanno reso infatti questa, area di elezione per la coltivazione del prodotto agricolo sin dall’antichità e, ancora oggi nella sua storia più recente, appunto con la famiglia Tiezzi. All’inizio del ’900, il bisnonno di Giovanna comprò i sessanta ettari della tenuta, data poi in eredità ai nonni e, a loro volta, ai suoi genitori. È con loro che inizia la storia moderna. Divenuti proprietari ufficiali, questi presero in mano la gestione diretta dell’azienda rendendo Pācina quella che è: realtà pioniera del pensiero ecologista agricolo, rispettoso e legato a «ciò che ci circonda». Babbo Enzo, professore di Chimica e Fisica, era stato infatti anche attivista ambientale, promotore e cofondatore del movimento Legambiente. Fu però mamma Lucia a tracciare il percorso da seguire. Biologa e scrittrice, credette nelle forze di quella terra, dando così vita alla prima bottiglia di Pācina: Doc Chianti Colli Senesi 1987. Se infatti prima gran parte del vino veniva venduto sfuso e utilizzato per dare struttura ai vini prodotti nella parte Nord del Chianti, quest’ultimo era stato concepito invece secondo una visione diversa. Vennero selezionate le uve delle vigne più vecchie. Il vino fu lasciato andare incontro a un processo del tutto naturale in cantina e imbottigliato infine senza aggiunta di solforosa.
Si aprì così la strada che a loro volta Giovanna e Stefano presero nel 1992 e che tutt’oggi continuano a percorrere. La meta è sempre la stessa: far sì che tutte le uve raccolte vengano sottoposte a processi naturali e spontanei, dando così vita al «Vino di Pācina». Parliamo infatti di un prodotto frutto di processi di fermentazione, stabilizzazione e affinamento lenti, all’interno di un ambiente divenuto ormai ideale quali le cantine scavate nel tufo. Il file rouge di tutto il processo di vinificazione è quello di adottare le moderne tecnologie per effettuare azioni minimali e mirate, garantendo così il più possibile il suo procedere naturale. Il risultato è pertanto un vino «naturale». Termine al quale, di fronte alla complessa ricerca di una sua definizione, Giovanna e tutta la famiglia hanno contribuito a darne una propria: «un vino unico che, grazie ai minimi interventi esterni, mostra senza compromessi le caratteristiche del vitigno, del territorio di provenienza e dell’annata». Il vino di Pācina diviene così espressione del terroir circostante e con esso dei vitigni autoctoni da cui provengono le sue uve. Rispettivamente: Sangiovese, Canaiolo e Ciliegiolo con i quali ottengono i loro rossi tradizionali, Trebbiano Toscano e la Malvasia dei Chianti, i loro bianchi, più qualche appezzamento coltivato a Syrah.
Tuttavia, dei sessantacinque ettari totali della tenuta, soltanto undici sono di vigna. Otto sono infatti destinati all’oliveto, quindici ai seminativi, per la maggior parte farro e legumi quali ceci e lenticchie. I restanti sono coperti da frutteto e bosco. Da quest’ultimo si procurano la legna con cui accendere i camini del loro agriturismo, «Pacinina». Dal primo e dall’aiuola delle erbe aromatiche invece gli ospiti possono inoltre raccogliere quanto più serve loro per cucinare nei singoli appartamenti (quattro in totale). Vi è inoltre la possibilità di accedere a un orto che produce verdure tutto l’anno, diverse a seconda della stagione. Pācina non è quindi solo un’azienda vinicola, ma è prima di tutto una fattoria. Come dichiara fermamente Giovanna: «Non c’è dubbio che il vino è quello che ti dà il motore economico e la forza, ma non riuscirei mai a fare il vino come vorrei, voglio fare e spero di fare se non continuo a pensare a una biodiversità reale». Una biodiversità che definisce «biodiversità di stile di vita, di terra, di rispetto di questo ciclo, che non può essere un fazzoletto dove produci soltanto qualcosa da mettere sul mercato». Quella messa in atto a Pācina è infatti un’agricoltura biologica, certificata ormai da più di venti anni. Non utilizzano alcun prodotto di sintesi, che si tratti di erbicidi, fungicidi o fertilizzanti. Ricorrono all’inerbimento spontaneo dei campi, effettuano la rotazione delle colture, alternando terreni messi a riposo produttivo ad altri lasciati volontariamente incolti. Tutto questo, al fine di mantenere la variegata diversità dell’ecosistema, quindi la sua ricchezza e le connessioni tra i suoi elementi.
Pensare quindi il vino come agricoltura e agricoltura come biodiversità. Un concetto questo appartenente al passato e purtroppo dimenticato, la cui riscoperta e promozione negli ultimi anni grazie anche a Giovanna è stata per lei «la rivoluzione». La descrive come: «Riprendere quello che c’era e riuscire a portarlo avanti con un’idea futura». La viticoltrice concorda tuttavia che la più importante svolta sia stata «dare il tempo a tutti, a tanti di comprendere che questo era possibile e che è anche “figo”». Dimostrandolo, «puoi essere anche d’esempio per le nuove generazioni» aggiunge. Proprio in virtù di tale principio, quattro anni fa la strada di Giovanna e quella di Pācina si sono incrociate con l’azienda Velier e il movimento delle Triple A. A unirli tutt’oggi è infatti la convinzione che sia necessario «riuscire a portare avanti un progetto economico, ma che è in un realtà un progetto culturale», con il quale formare e plasmare la mente dei giovani. Questa è per lei, per loro «la vera rivoluzione».