Due donne. La più giovane, in primo piano, osserva trepidante e pensierosa un luogo al di là del presente, un momento oltre l’adesso, una vita. Indossa una veste bianca, ha i capelli tirati indietro. Sulle sue spalle le mani di una donna più anziana, vestita di scuro. Il suo tocco delicato fa il paio con gli occhi di chi il percorso della vita l’ha già affrontato. La bocca non si vede, ma si può immaginarla dispensare consigli, forse avvertimenti, a colei che le volta la schiena. Forse parla con sé stessa, forse vuole rendere quella sua proiezione consapevole della scelta che sta per fare. La scena, in bianco e nero e dallo sfondo indefinito, sembra immortalare gli attimi prima del fatidico «sì».
Un’immagine che sembra travalicare lo spazio e il tempo, e che non a caso si è meritata il primo posto nella categoria creativa “Open” del Sony World Photography Award, concorso fotografico allestito dalla World Photography Organization. Il premio non ha fatto però in tempo a finire nelle mani del vincitore, il cinquantaduenne tedesco Boris Eldagsen, che ha infatti rifiutato rivelando come il ritratto fosse, in realtà, realizzato con il supporto di un software di intelligenza artificiale. L’opera, intitolata L’Elettricista fa parte della serie “Pseudomnesia”, ovvero “falsa memoria”. In effetti, ci si poteva arrivare.
«Ho concorso in maniera provocatoria [«as a cheeky monkey»], per scoprire se le competizioni fossero pronte all’ingresso di immagini generate dall’intelligenza artificiale. Non lo sono» ha affermato Eldagsen nella sua dichiarazione di rinuncia, spiegando come secondo lui il mondo della fotografia necessiti di una discussione aperta «su cosa vogliamo considerare fotografia e cosa no. L’ombrello della fotografia è largo abbastanza per invitare le immagini generate con IA a entrare, o sarebbe un errore? Con il mio rifiuto al premio spero di accelerare il dibattito».
Eldagsen è in aperta polemica con l’organizzazione, che sostiene di essere stata preventivamente informata dell’intervento dell’intelligenza artificiale nella creazione dell’immagine, mentre l’autore dice di aver rivelato come stessero le cose solo dopo la comunicazione di vittoria, in quanto il concorso ammetteva l’utilizzo di «qualsiasi strumento». La richiesta di avviare insieme un dibattito è stata respinta dall’organizzazione, che dopo l’ammissione del deliberato tentativo di ingannarla da parte di Eldagsen ha fatto sapere di non sentirsi «più in grado di impegnarsi in un significativo e costruttivo dialogo con lui».
Ferri corti o meno, regolamento o no, il dibattito è aperto eccome. Le immagini fotorealistiche generate con software di intelligenza artificiale, come Stable Diffusion o il più popolare Midjourney, sono equiparabili alle fotografie? Secondo Eldagsen, neanche per idea: «Amo la fotografia, amo generare immagini con l’IA, ma non sono la stessa cosa. Una è scrivere con la luce, l’altra è scrivere con i comandi [«prompts»]», ha dichiarato in un’intervista al Guardian. «Sono connesse, il linguaggio visivo venne appreso dalla fotografia, ma ora l’IA ha vita propria. Se le persone vogliono rimanere in silenzio e non parlarne, questo è sbagliato». Eldagsen pensa che, in sede di concorso, le immagini generate con l’intelligenza artificiale debbano gareggiare separatamente dalle fotografie. Uscendo dal contesto delle competizioni, però, non ritiene che l’IA costituisca una minaccia alla creatività. Anzi, pensa addirittura che avvantaggi i fotografi più esperti: «L’IA», afferma, «è un acceleratore di conoscenza. Due terzi dei prompt sono buoni solo se si hanno conoscenze e competenze, se si conosce come funziona la fotografia, se si conosce la storia dell’arte. È qualcosa che un ventenne non può fare».
Ad ogni modo, stiamo ancora parlando di fotografia? Per rispondere, prima c’è da chiedersi cosa si intenda oggi per fotografia. In passato, certo, le rivoluzioni ci sono state, portando costantemente la professione, l’arte e la società a confrontarsi con una manipolazione delle immagini sempre più semplice ed economica. In questo caso, però, parliamo di strumenti accessibili a chiunque, in grado non solo di modificare la realtà, di crearne dal nulla una completamente inesistente con la semplice scrittura di un testo, il prompt appunto, come avevamo spiegato qui. Eldagsen la definisce «Promptografia», anche se è più corretto parlare di “sintografia”.
Oltre all’impatto pratico, immediato dell’intelligenza artificiale sul mondo dell’arte e della fotografia – i software imparano a creare le proprie immagini grazie all’utilizzo di milioni di scatti e opere presenti su Internet, inevitabilmente “rubando” il lavoro di altre persone -, che comporta il rischio reale di una perdita di importanza del lavoro umano, ci sono altri aspetti da considerare. Hanno fatto scalpore, ad esempio, le immagini diffuse su Twitter dal fondatore del sito di giornalismo investigativo Bellingcat, Eliot Higgins, ritraenti l’arresto dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Immagini create da un software, che hanno immediatamente sollevato il dibattito sui potenziali pericoli di questo tipo di tecnologia per la democrazia.
Un fenomeno cui il mondo ha già assistito con l’avvento delle fake-news e dei deepfakes, che ha portato a parlare sempre più di “post-verità”. Oggi quel limite viene spostato ulteriormente verso l’alto, incontrandosi con un terreno fertile sociale forse impreparato a farvi fronte. Secondo Fred Ritchin, che ne ha scritto su Vanity Fair, «le immagini sintetiche hanno il potenziale non solo per destabilizzare la società, distorcere le discussioni e danneggiare gli individui, ma per oscurare il nostro senso di cosa è reale». La proliferazione di milioni di immagini, dice, «mina l’evidenza da testimone oculare delle fotografie a cui somigliano».
«In una società dell’immagine, in un’era del visivo dove le persone interagiscono sempre più con esperienze visuali totalmente costruite, l’entrata in scena di un nuovo salto tecnologico non può far altro che avere delle conseguenze», spiega Lorenzo Nasi, professore associato e docente di Sociologia Visuale presso l’Università di Siena. «Nello specifico, il rischio più grosso è quello di una ulteriore divulgazione di immagini false e falsificate, così come la creazione o l’incremento di stereotipi e discriminazioni di ogni tipo, o la creazione di immagini per alterare proprio la comprensione e la consapevolezza rispetto a determinati fatti».
La fotografia è testimonianza, osservazione e interpretazione della realtà. L’avvento della sintografia potrebbe decisamente minare la fiducia collettiva nel ruolo sociale dei fotografi professionisti come estensione del proprio senso visivo. Nasi, però, non vede grossi stravolgimenti rispetto a ciò che già è successo con l’avvento del digitale. Già alla fine degli anni Novanta, afferma, si parlava di «un mondo di immagini nel mondo, un mondo reale che coincide con il mondo delle immagini, un mondo come fenomeno visto». La fiducia, all’epoca, passò «dal mezzo fotografico direttamente a chi scatta», mettendo perciò al centro la necessità di «un’etica dell’immagine e della responsabilità, soprattutto in quegli attori della società impegnati nella divulgazione di informazioni e conoscenza».
Anche secondo la fotografa Giovanna Griffo, divulgatrice, docente e vincitrice di diversi premi internazionali, la disinformazione e la manipolazione costituiscono un problema che esiste da sempre, fin dalla nascita dalla fotografia. «Se una foto viene completamente ridisegnata al computer, con l’aggiunta di elementi completamente nuovi e la rimozione di tutti gli elementi originali, allora potrebbe essere impossibile riconoscerla come l’originale», dice, aggiungendo come però sia innegabile che l’avvento dell’intelligenza artificiale abbia «reso la situazione ancora più complessa, dato che chiunque può utilizzare questi strumenti per manipolare le immagini e i contenuti digitali».
C’è una buona notizia, però: «Centinaia di aziende del settore, come Adobe, si sono mosse già da tempo per dare una soluzione a questo problema», afferma Griffo, «creando un sistema di attribuzione che permetta di verificare facilmente la provenienza di immagini, video e altri contenuti». In questo modo, chiunque operi nel mondo dell’informazione potrebbe utilizzare solo immagini provviste di questa sorta di marchio di garanzia «per tutelare i suoi lettori dalle fake news».
Non solo ombre, quindi, ma anche grandi potenzialità, per la società e per lo stesso mondo fotografico. Per Riccardo Scrocca, multimedia designer professionista e divulgatore, «la fotografia è da sempre da un lato catturare l’istante e renderlo eterno, e dall’altro rendere condivisibile l’immaginazione, la visione, il mondo incredibile che c’è nella testa del fotografo». Fare “fotografia” con l’intelligenza artificiale, spiega, «è qualcosa di completamente nuovo, e se da un lato cade completamente l’aspetto del tempo, dall’altro viene potenziato a livello infinito l’aspetto della manifestazione condivisibile dell’immaginazione. È in atto una Rivoluzione, che non si può ignorare». Per Scrocca il fotografo ha molto da guadagnare da questo tipo di tecnologia, poiché diviene capace di «parlare una lingua che moltissime altre persone non sanno parlare».
«Per ogni categoria professionale ci sarà comunque un adeguamento di competenze che vertono all’uso dell’intelligenza artificiale, dato che sarà utilizzata in misura sempre maggiore» concorda Griffo, «non solo per la creazione di contenuti fotorealistici, ma anche come nuovo e potentissimo strumento di postproduzione anche per le immagini fotografiche, e come strumento di esplorazione di nuove frontiere creative». L’IA generativa avrà perciò un impatto sulla professione di fotografo, ma non la sostituirà completamente. «Ci saranno nuove opportunità e sfide, e i fotografi dovranno adattarsi e sviluppare nuove competenze per rimanere competitivi nel mercato». Il sociologo Nasi ricorda la fusione tra discipline artistiche diverse: «Già quando nacque la fotografia nel 1839 alcuni decretarono la fine della pittura. Così non è stato, anzi. Tanti pittori, gli impressionisti per esempio, utilizzarono la fotografia per migliorare la propria tecnica. Manet, per esempio, nel dipinto “Il balcone” sperimenta per la prima volta lo sfuocato come tecnica ripresa dalla fotografia».
«Sicuramente», afferma Nasi, «è necessaria una nuova consapevolezza. Sarà necessario dotarsi di strumenti culturali e poi anche tecnici al fine di poter interpretare correttamente ciò che vediamo». Le istituzioni educative ricoprono, in questo, «un ruolo strategico fondamentale: promuovere un’educazione all’immagine (nel loro uso prima che nella loro produzione), un’educazione al visivo». La sintografia ha innumerevoli potenziali applicazioni virtuose, capaci di influire efficacemente sull’immaginario collettivo legato, ad esempio, a scenari futuri. Pensiamo a quanto potrebbe essere evocativa la giusta immagine, generata artificialmente, ritraente gli effetti di fenomeni al di là della comprensione immediata come l’impatto del cambiamento climatico e delle catastrofi naturali sul mondo che conosciamo. «Le conseguenze positive ci saranno, come in tutte le evoluzioni tecnologiche», prospetta Nasi. «Penso al campo della medicina, dell’ingegneria, dell’educazione anche (noi già utilizziamo la realtà aumentata per costruire scenari e contesti dentro i quali interagire al fine di prefigurarsi determinate situazioni). Del resto, abbiamo già da tempo la possibilità di entrare ed abitare case ancora da costruire».
L’esperto sottolinea però un aspetto fondamentale in relazione all’intelligenza artificiale: il rapporto tra immagini e libertà. Quella libertà che ciascuno di noi ha nel momento in cui osserva una fotografia. «Walter Benjamin parlava del valore magico della fotografia, dato dall’hic et nunc (qui e ora), quell’istante congelato unico e irripetibile; così come Roland Barthes parlava del Punctum quale elemento unico che colpisce l’osservatore e che dà la possibilità di iniziare un percorso di esplorazione e comprensione dentro sé stessi, dentro le proprie emozioni, il proprio vissuto, riuscendo sempre a sorprenderci e a meravigliarci, indipendentemente dai nostri desideri». Il fatto che l’IA agisca proprio «sul trasformare i nostri desideri, il nostro immaginario in immagini, capovolge la questione, facendo svanire quel valore magico intrinseco delle fotografie». Sarà quindi opportuno, conclude Nasi, «difendere la libertà e l’autonomia delle fotografie affinché possano continuare a meravigliarci, a indignarci, a sfidarci. E a individuare nuove prospettive».