I Fratelli, ormai è chiaro, si sono bevuti la Fiuggi. Ventotto anni dopo si torna al punto di partenza con un lungo viaggio a ritroso verso la notte scacciando il fantasma del fascismo, non c’è nulla da fare, siamo ormai al revisionismo del revisionismo, quello della famosa svolta di Fiuggi con la nascita di Alleanza nazionale (gennaio 1995). Comunque la si pensi si assiste alla controsvolta più clamorosa degli ultimi decenni, come se il Pd ripudiasse l’Ulivo o Forza Italia la Fininvest, è come la Restaurazione borbonica rispetto ai Lumi, una controrivoluzione con Francesco Lollobrigida al posto di Domenico Fisichella.
Sì, Fiuggi è molto più lontana dalla Roma meloniana di quanto non dica la carta geografica, è un ricordo notturno nella mente aggressiva di un redivivo Italo Bocchino diventato un fascio di nervi a difesa dei ritrovati Fratelli, ed ecco che con lui tornano in tv i ragazzi di via Milano formatisi nelle vecchie sezioni missine, i Mauro Mazza, per dire, pure più abili dei giovani rampolli nati dopo Fiuggi, per loro è un coming home, si torna a casa «la nostra» come cantava Lucio Battisti.
Compattissimi in questo ritorno, poiché «la sottile fratellanza della battaglia – scriveva Stephen Crane, grande scrittore americano della fine dell’Ottocento – era più forte della stessa causa per cui combattevano», i Fratelli d’Italia rovesciano la storia rinnegando quella loro più recente – Fiuggi appunto -, una capriola voluta da Giorgia Meloni, il collante riferimento per questo piccolo mondo nero come fu il Cavaliere – va da sé, era un altro livello – con tutta l’Italia postideologica e postpolitica degli anni Novanta lasciando che i suoi seguaci scorrazzino per le praterie reazionarie e dicano quello che lei non può dire (come ha fatto vedere impietosamente Piazzapulita la sostituzione etnica era stata evocata sui palchi di mezza Italia proprio dall’attuale presidente del Consiglio ben prima del di lei cognato).
Tanto pesante è la controsvolta di Giorgia e Ignazio che viene da chiedersi se Fiuggi sia stata storia autentica o solo un felliniano tendone da circo che il giorno dopo non c’è più, un grande spettacolo più che un big bang, o a guardar bene solo una passata di straccio su quel vecchio tavolo impolverato che era il Movimento sociale italiano, una spruzzatona di deodorante dopo cortei e scazzottate, con Gianfranco Fini che doveva tranquillizzare i pur sempre “camerati” («Si scioglie chi è fallito, chi non ha più niente da dire…»), e infatti tanto sottolineava che An era una evoluzione più che una rottura col passato.
Però all’epoca c’era un’aria nuova, gente diversa, idee e suggestioni frizzantine, dal Secolo di Flavia Perina (quante belle penne) veniva il tentativo di cercare punti di incontro con le culture altre – e basta con i soliti Dieu La Rochelle, Evola e Prezzolini, c’è vita anche altrove, su – insomma c’era tutta un’operazione che faceva storcere il naso ai più duri e piaceva ai progressisti, al solito ingenui e frettolosi perché presto il castello di carte crollò e l’aura di Fini svanì («Carattere pigro, anima superba in un corpo longilineo…», Alessandro Giuli, 2012).
Ed è dai funerali del “finismo” che da allora a destra lavorano alla Grande Restaurazione, c’è voluto tempo ma piano piano, di Atreju in Atreju, la giovane Giorgia ha scalato le marce del coming home, oggi sono al comando del Paese e chi meglio di Ignazio La Russa può impersonare il più roboante dei ripensamenti sugli anni e sull’età? Lui, l’ahinoi presidente del Senato, è il Conducator del revisionismo del revisionismo, inventandosene una al giorno malgrado l’alta carica suggerirebbe maggiore compostezza, così che ieri è trovato a dire, con inutile precisazione incorporata, che «nella Costituzione non c’è la parola antifascismo» che ovviamente non solo c’è, nella famosa XII Disposizione transitoria che fa divieto di ricostruire il partito fascista ma, come concetto, evidentemente permea tutti gli articoli della sua prima parte (lo ha detto bene Elly Schlein, «l’antifascismo è la Costituzione»), non se n’è mai accorto l’avvocato La Russa?
In queste ore i Fratelli non vedono l’ora che si arrivi presto al 26 aprile – intanto Giorgia e il Bottai dei poveri Gennaro Sangiuliano inneggiano con toni elegiaci al Natale di Roma – perché tra i piedi c’è ’sto maledetto 25 aprile “comunista” (poveri Leo Valiani, Giuliano Vassalli, Giovanni “Albertino” Marcora, Altiero Spinelli e mille altri così lontani dal comunismo!) e in qualche modo bisogna sfangarla, ed ecco qui la botta di genio del presidente del Senato: un bel viaggio a Praga per commemorare Jan Palach, il ragazzo che si diede fuoco sulla piazza Venceslao in segno di suprema protesta contro i carri armati sovietici del ’68 a Praga (ma che c’entra con la nostra Liberazione?) e vabbé già che ci siamo allunghiamoci per una visita al campo di concentramento di Theresienstadt: ma non faceva prima ad andare a Marzabotto?
Piccole furbizie di un presidente del Senato che non riesce a smettere i panni del dirigente politico già missino e che in queste settimane ne ha dette di tutti i colori, tutte perle, da «via Rasella una pagina tutt’altro che nobile, colpirono una banda di vecchi pensionati» (31 marzo) a «un figlio gay lo accetterei con dispiacere, così come se fosse del Milan» (20 febbraio) a «siamo tutti figli del Duce» (settembre 2022) fino appunto all’antifascismo che non è scritto nella Costituzione.
Ma non doveva, Giorgia, virare verso un conservatorismo di tipo europeo? Lo scrisse uno che conosce benissimo quel mondo, il professor Alessandro Campi quando all’epoca scriveva che «l’impegno di trasformare la destra, di liberarla per sempre dalla sua matrice ideologica che affonda nel fascismo, supera l’esperienza del presidente della Camera (Fini-ndr). Servirà più di una generazione per avere anche in Italia la normalità che in Europa produce fisiologicamente i David Cameron e i Nicolas Sarkozy». Dunque bisogna aspettare «più di una generazione», e invece di Cameron è arrivato Donzelli, e non è esattamente la stessa cosa. Fiuggi addio, è stato bello, l’antifascismo lo hanno spostato a Praga.