Dimenticare per sopravvivereLa strage nazifascista di San Terenzo Monti e il peso della memoria

In “Un autunno d’agosto” Agnese Pini racconta l’eccidio che ha colpito la sua famiglia il 19 agosto del 1944, quando i nazisti massacrarono 159 persone, in prevalenza donne e bambini

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La leggenda racconta che il corpo di san Terenzio, vescovo di Luni, trucidato in un agguato dai suoi servi, fu trasportato su un carro da due buoi che andavano avanti da soli senza guida. I buoi arrivarono fino al torrente Bardine, dopo aver percorso lenti e smarriti, ma indomiti, le tortuose mulattiere che incidevano l’Appennino nel triangolo di terra stretta ai confini della Toscana, della Liguria e dell’Emilia, la terra che si chiama Lunigiana. Terra della luna.

Il torrente Bardine era allora come si vede ancora oggi: in estate un rivolo stretto tra le rocce, che nei mesi delle piogge si ingrossa coprendo quasi per intero l’ampio letto di sassi bianchi, circondato da una boscaglia che disegna una trama fitta di ombreggiature sul pelo dell’acqua. Per questo il torrente si riempie di tinte lucide e smeraldine sotto i raggi del sole di mezzogiorno, riflettendo al contempo il bianco delle pietre e il verde del bosco. Giunti alla riva, stremati, i buoi che trasportavano Terenzio si abbeverarono e poco dopo morirono, lasciando il corpo del santo ai bordi del Bardine. Fu lì, per custodire le sacre spoglie, che nel 728 venne costruita la chiesa di quello che diventò il paese di San Terenzo Monti.

Terenzio era un monaco scozzese del VI secolo: approdato via nave e dopo molte peripezie a Portiolo di Lerici, avrebbe dovuto raggiungere Roma. Non ci arrivò mai. Si fermò nel villaggio a strapiombo sul mare, vendette tutti i suoi beni per dedicarsi interamente alla piccola comunità locale di poveri e miti pescatori. Quando morì, gli uomini e le donne di Portiolo, privati delle spoglie, decisero che almeno avrebbero dovuto consacrargli per sempre la memoria del paese, che da allora si chiama San Terenzo. Ancora oggi i due paesi, San Terenzo che guarda il mare e il sole del golfo di Lerici, e San Terenzo Monti sulla valle del Bardine tra le Alpi Apuane e gli Appennini, sono collegati da una strada che si inerpica per oltre venti chilometri tra una rete tuttora inestricabile di boschi di castagni, con poche case e minuscoli villaggi che interrompono su aspre radure la compattezza selvaggia del paesaggio.

Roberto Oligeri mi raccontò la storia di Terenzio mentre ce ne stavamo seduti sotto la fila di cipressi, su una panchina di legno che era stata messa accanto alla lapide. Non so perché ci trovammo a parlare di quella vecchia leggenda proprio adesso che la memoria e l’emozione avrebbero dovuto trascinarci in altri ricordi. La bellezza di quel luogo era così nitida, il silenzio così intatto, che restituivano davvero la solennità di un santuario: il cielo per soffitto, le strette valli e le alte colline sullo sfondo come pareti.

Mia nonna diceva che dopo la strage i vecchi padroni e i nuovi mezzadri avevano smesso di coltivare la collina, e le antiche viti che per secoli ne avevano disegnato il dolce profilo si erano a poco a poco trasformate in una distesa erbosa, che in primavera e fino alla prima estate si riempiva di margherite, campanule, bocche di leone e, a partire da inizio giugno, papaveri.

Null’altro era cambiato della fattoria di Valla: a sinistra, all’imbocco del crocevia di sentieri, c’era ancora la grande stalla in pietra, con le porte di legno dipinte di verde, le strette bocche d’aria in muratura che disegnavano una trama di aperture intermittenti sulle facciate laterali, in due file perfettamente simmetriche. La casa che era stata di Clara Cecchini era proprio davanti alla stalla: bianca e squadrata, si sviluppava su tre piani sfalsati, collegati da una rete di scale esterne che portavano fregi di marmo annerito dal tempo sui piccoli capitelli a sostegno delle ringhiere. Ombreggiata da una famiglia di faggi che ne dominava il tetto, aveva l’ingresso esposto a ovest.

Anche dopo che si era sposata, ed era andata a vivere con il marito a Fosdinovo, Clara non aveva smesso di curare la fattoria, aveva continuato a considerarla la sua casa. Ma da quando era morta, e l’intero complesso era rimasto disabitato, l’edera era cresciuta sulla facciata, coprendo quasi per intero il vecchio cancello d’ingresso, mentre nella terrazza in pietra annerita dall’umidità e dal muschio le erbacce avevano invaso gli interstizi tra il pavimento e i larghi parapetti. Le piccole crepe sull’intonaco, la polvere densa che ingrigiva le imposte marroni, davano alla casa l’aspetto malinconico dell’assenza. Alle sue spalle, il bosco era diventato fitto e ostile, e i sentieri un tempo ampi e puliti che portavano giù fino al torrente Bardine e al vecchio mulino, erano ormai quasi impraticabili per via dei rovi, delle radici e delle erbe infestanti.

Non so dire che cosa avesse spinto Clara Cecchini a non andare mai via da lì, a voler tornare come in un pellegrinaggio perpetuo in quella casa, in quella stalla, in quel campo che avevano visto consumarsi la fine di tutto, della sua famiglia e della sua infanzia. Non so dire perché non avesse mai desiderato andare altrove, cercare in nuovi panorami e in nuovi accenti la scusa per sfuggire al passato e alla memoria. Neppure Roberto Oligeri era mai voluto andare via da San Terenzo Monti. Di certo non gli erano mancate le possibilità, le opportunità, ma aveva scelto di restare, e quella scelta mi lasciava stupita e ammirata ma anche diffidente, perché in fondo la forza ostinata di stare attaccati a ciò che siamo, a ciò da cui veniamo, mi sembrava pericolosa.

La mia famiglia se ne era andata a poco a poco. Si era dispersa in nuovi paesi e poi in nuove città, aveva cercato attraverso la lontananza fisica la giusta distanza dal dolore e dai ricordi. E dal senso di colpa. Eppure anche loro, che per sopravvivere avevano deciso di dimenticare, non erano riusciti a cancellare il passato. Così il passato tornava a vivere imbucandosi senza preavviso nei momenti più inaspettati, con uno strano contrappasso: mano a mano che il tempo scavava gli anni tra la strage del 19 agosto 1944 e il presente, la memoria riemergeva più viva, recuperava voci e racconti. Mia nonna iniziò davvero a parlare della strage solo quando divenne vecchia, come se la distanza degli anni riuscisse a restituirle le parole. Mentre io avevo assorbito la necessità del distacco come condizione dello stare al mondo.

Forse per questo tornare a San Terenzo, o meglio andare a San Terenzo, mi era costato tanta fatica. Tanto tempo. Tanti pensieri, tanti ripensamenti, tante false partenze. Dico andare, e non tornare, perché non ricordo di essere mai stata a San Terenzo prima di quella domenica di ottobre in cui Roberto Oligeri mi diede appuntamento al parcheggio, alle tre del pomeriggio, davanti al bosco di castagni. Mia madre giura di sì, giura di avermici portato: alla lapide, al cimitero con il corpo della bisnonna, al campo fiorito in primavera, nella fattoria di Valla. Io non riesco a ricordare nulla. Non ho immagini. Ho sensazioni ed emozioni e odori, quelli sì. Ma sono stati d’animo, sono il peso di un vissuto rielaborato al punto da diventare una parte fisica di me, un tutt’uno con quella che sono.

Da “Un autunno d’agosto” di Agnese Pini, Chiarelettere, 256 pagine, 17 euro

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