Social nella forestaLe fotografie di Nicolò Lanfranchi sul futuro dell’Amazzonia

Milanese, laureato in filosofia, il suo punto di riferimento etico ed estetico è Sebastião Salgado. Il 28 aprile, al Festival Internazionale di Architettura Seed di Perugia, sarà presentato per la prima volta il suo reportage “The Forest Knows”, dedicato alla tribù degli Asháninca

©Nicolò Laffranchi, Courtesy Aboca e Fondazione Guglielmo Giordano

L’Amazzonia è uno dei luoghi più tormentati del nostro Pianeta. Se da un lato è il nostro polmone verde, dall’altro è al centro di interessi criminali che lo rendono un luogo pericoloso dove regna per lo più la legge del narcotraffico. Forse anche per questo da decenni è oggetto di indagini fotografiche: come non pensare all’ormai epico primo libro fotografico di Sebastião Salgado “The Other Americas” del 1986.

In questi giorni tutte le contraddizioni dell’Amazzonia sono protagoniste del Festival Internazionale di Architettura Seed di Perugia durante il quale sarà presentata per la prima volta la ricerca fotografica The Forest Knows di Nicolò Lanfranchi (fotografo milanese, classe 1976). Il progetto, realizzato grazie al contributo di Aboca e Fondazione Guglielmo Giordano, nasce in seguito a un evento tragico: il 5 giugno 2022 ad Atalaia do Norte il giornalista britannico Dom Phillips e l’avvocato Bruno Pereira furono trucidati mentre stavano indagando sui trafficanti tra Brasile e Bolivia. L’obiettivo di Philips era quello di realizzare un libro che non solo denunciasse i drammi dell’Amazzonia, ma anche che ipotizzasse soluzioni e parlasse di futuro. Anche Nicolò Lanfranchi doveva essere parte di quel viaggio, ma Dom, presagendo i pericoli, gli chiese di non partire.

©Nicolò Laffranchi, Courtesy Aboca e Fondazione Guglielmo Giordano

Questa tragica esperienza ha portato il fotografo e il produttore, Davilson Brasileiro, a rendere omaggio all’amico ucciso, tornando a documentare un caso di Amazzonia virtuosa su cui Philips aveva lavorato, la tribù degli Asháninca. Tra foreste miracolosamente salvate o recuperate, loghi di brand internazionali e i social network che avanzano persino nella foresta amazzonica, questi scatti non parlano di un ritrovato paradiso in terra, ma di futuro, di un compromesso storico necessario, in cui non possono che aggirarsi gli spettri irrisolti di una globalizzazione che appiattisce piuttosto che arricchire. Guardando alle immagini di Lanfranchi vengono così alla mente parole come riserva, colonizzazione, melting pot, paternalismo, ma anche progresso, famiglia e comunità.

Ed è forse la forza principale del progetto il riuscire a guardare e palesare l’inevitabile contaminazione e contraddizione dei nostri tempi, forse ancora più urgente ed evidente in quei luoghi remoti, che stanno perdendo persino la difesa del loro essere “lontani”. Abbiamo intervistato Nicolò Lanfranchi e affrontato di petto tutte le contraddizioni e le complessità di questa realtà e del suo inedito reportage.

©Nicolò Laffranchi, Courtesy Aboca e Fondazione Guglielmo Giordano

Volendo rileggere e onorare la carriera di Dom Philips, perché hai scelto di raccontare la tribù degli Asháninca?
Il progetto con Davilson era già in nuce e, scomparso Dom, avevamo una ragione in più per farlo. È un territorio di confine non solo geografico quello tra il Brasile e il Perù, ma anche culturale. Volevo raccontare la storia di una popolazione che si è lasciata consapevolmente contaminare, un’Amazzonia che reagisce e che sa scegliere senza fanatismi cosa prendere dall’occidente e dall’uomo bianco. Inoltre rappresentano una tribù che è riuscita ad appianare i conflitti tribali e a scoprire che uniti ce la potevano fare. Negli anni Duemila, gli Asháninka hanno così ottenuto il titolo legale di parco, Parco nazionale Otishi, che copre circa novantamila chilometri quadrati.

Come mai questa comunità è riuscita a sopravvivere?
Dopo decenni di lotte, una famiglia ha fatto la differenza. Lo sciamano Benki Piyãko insieme ai suoi fratelli hanno portato avanti un’azione di rimboschimento dell’Amazzonia. Nel farlo si sono aperti al mondo, organizzando anche ritiri spirituali e sono riusciti a coinvolgere organizzazioni internazionali, star di Hollywood e semplici cittadini. Sono così riusciti a reperire fondi e competenze per sostenere questa missione. Ora non solo hanno raggiunto la sicurezza alimentare e l’autonomia, ma hanno un surplus di risorse e si stanno evolvendo in una direzione sempre più green, che permetterà loro di essere autonomi a livello energetico con pannelli solari e altre fonti rinnovabili, anch’essi ottenuti grazie a fondi internazionali. La modernità avanza e loro non la negano, ma non hanno un approccio fideistico: sanno scegliere con ironia e intelligenza cosa serve e cosa no. Pensa, ora hanno anche un profilo Instagram e le nuove generazioni, soprattutto le donne, sono diventate molto brave con questi mezzi di comunicazione. Ovviamente anche gli strumenti informatici sono stati ottenuti con finanziamenti derivanti dal loro essere “virtuosi”.

©Nicolò Laffranchi, Courtesy Aboca e Fondazione Guglielmo Giordano

Hai trascorso con questa comunità tre settimane. Il tuo lavoro di foto-giornalismo è un mix tra antropologia e tecnica. Che contaminazione ti sei portato a casa?
Dietro al mio lavoro è sempre presente uno studio storico-antropologico, perché devi sempre ricordare a te stesso che metti il piede all’interno di un contesto diverso. Senz’altro all’inizio ero sovraccaricato, mentre gli Asháninca hanno un rapporto diverso con il tempo e con la vita, che definirei quasi strategico. Sanno aspettare e vedere in un seme l’albero che sarà. Mi porto a casa un episodio: stavo lavorando a uno scatto con una donna che dopo poco tempo mi disse: «Ora basta». In quelle parole non c’era fastidio, ma l’invito ad andare oltre, a vivere la vita e non solo a catturare e guardare a un singolo momento. E così ho fatto: non ho più fotografato per quel giorno, sono uscito e ho vissuto ciò che mi stava intorno.

I tuoi scatti non sembrano rubati, ma costruiti a livello compositivo. Come vivi il mettere in posa chi fotografi?
All’interno del mio processo creativo cerco sempre il tempo necessario per ragionare e costruire, la fotografia per me è come costruzione di una narrazione, anche se seguo principi di onestà intellettuale, etica e di rispetto. La fotografia infatti non è uno specchio fedele della realtà: c’è sempre il filtro e l’interpretazione del fotografo. Far posare non toglie autorevolezza né valore antropologico a una immagine. Non ero in guerra e non avevo l’urgenza di catturare il momento, perciò ho voluto mettere insieme elementi che veicolassero una storia.

©Nicolò Laffranchi, Courtesy Aboca e Fondazione Guglielmo Giordano

La fotografia come narrazione: cosa hai voluto raccontare con The Forest Knows? Mai pensato di farlo con le parole?
Non sono sintetico con le parole, non amo le regole, le costrizioni e i limiti della prosa. Sognavo di fare lo scrittore e in fondo lo faccio a modo mio attraverso la sintesi della fotografia. Nella mia narrazione degli Asháninca ho cercato di mettere insieme e unire i diversi piani su cui si articola la loro storia: il ruolo della famiglia, la comunità, i riti, ma anche il villaggio, il fiume e la vita quotidiana in continua evoluzione. Nei miei scatti c’è il futuro dell’Amazzonia, non il tentativo di preservare qualcosa di puro e perso: una contaminazione inevitabile.

Il preservare rimanda al lavoro di Sebastião Salgado che nel 2016 dedicò dei celebri scatti proprio agli Ashàninka. Sei stato influenzato da questo noto precedente?
Salgado è uno dei maestri sin dai tempi della mia formazione: già mentre studiavo filosofia e imparavo da autodidatta a fotografare lui era il punto di riferimento. Prende la pancia, le sue immagini hanno un valore universale. Non a caso ho iniziato con il bianco e nero ai tempi dell’analogico. Quando sono arrivato, erano ovunque le immagini di Salgado: ho sentito un senso di onore e responsabilità, ma anche il bisogno di staccarmi da un sentimento di conservazione e di trattenere il tempo che non è il mio. C’è stato come un interruttore: l’’ho spento e ho vissuto il mio momento. Nella mia lente sono così entrate altre cose, tra cui il cambiamento in corso. Ho quindi raccontato non ciò che si sta perdendo, ma una sorta di Amazzonia due punto zero, il loro vivere nella contemporaneità, tra pericoli, attacchi e nuove possibilità.

©Nicolò Laffranchi, Courtesy Aboca e Fondazione Guglielmo Giordano

Qual è l’immagine simbolo di questa contaminazione al centro del tuo racconto degli Asháninca?
Nel periodo trascorso con gli Asháninca ho assistito all’incontro tra gli Asháninca e una delegazione della popolazione dei Kayapó: l’obiettivo era quello di favorire l’incontro dei due popoli, per permettere ai Kayapo di vedere da vicino la vita del villaggio, il lavoro di agriforestazione e monitoramento del territorio, di capire le ragioni dei successi raggiunti dagli Ashaninka e trarne ispirazione da riportare in Mato Grosso. Già questo tipo di incontri in popolazioni storicamente così fiere e indipendenti è di per sé segno dei tempi. L’aspetto antropologico mi ha spinto a ritrarre anche questo incontro e a includere in un reportage sugli Ashàninca anche membri di altre popolazioni indigene. Tra questi ritratti uno è stato per me folgorante e a tratti controverso: un indigeno si era infatti costruito una cintura con le loro perline tradizionali ricreando il logo dell’Adidas, perché gli piaceva. Ma perché gli piaceva?

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