Dopo l’India, dove una decina di giorni fa sono stati registrati 43,5 gradi, la Spagna e il Portogallo flirtano con i quaranta gradi di temperatura. E nemmeno iniziato il mese di maggio. L’ondata di caldo che sta travolgendo la penisola iberica è l’ennesimo inquietante presagio di un’estate che rischia di rivelarsi peggiore rispetto a quella del 2022, la più calda nella storia europea secondo l’ultimo report di Copernicus.
A Siviglia, così come in altre città dell’Andalusia e della Spagna meridionale, le temperature attuali sono superiori di circa dieci-quindici gradi rispetto alla media stagionale. La città sulle rive del Guadalquivir sta cuocendo in quello che viene definito «forno iberico», scaldato dall’aria rovente proveniente dall’Africa settentrionale. E qualcuno inizia a preoccuparsi per un possibile impatto negativo sui turisti, non più attratti da un’area soffocata da ondate di calore sempre più intense, lunghe e frequenti a causa della crisi climatica.
Stando ai dati di CzechGlobe, ripresi su una mappa da Windy.com, dopo le temperature di questa settimana gli indici idrici di alcune porzioni del suolo spagnolo saranno simili a quelli del deserto del Sahara. Significa che nessun raccolto maturerà senza ricorrere all’irrigazione. C’è però un “piccolo” problema: la crisi idrica. L’emergenza climatica è un cane che si morde la coda, una concatenazione di effetti visibili ormai ovunque, anche nelle zone teoricamente meno sospette.
Après le premier pic caniculaire 35-40°C, les indices hydriques des sols agricoles* espagnols vont atteindre les niveaux du Sahara.
La réserve hydrique des sols s’abaisserait à 0% sur [0-40cm] et 1% sur [0-100cm]. A ce niveau là, aucune culture n’ira à la maturité sans… pic.twitter.com/I4fbrkPyK7— Dr. Serge Zaka (Dr. Zarge) (@SergeZaka) April 25, 2023
Qui l’attenzione non è più rivolta alla Spagna, all’Italia, al Sud della Francia o alla Grecia, ma ai Paesi del Nord Europa in cui i cittadini indossavano (l’imperfetto e d’obbligo) la felpa anche nei mesi estivi. Chi si sente al sicuro è forse più vulnerabile di chi, ormai da anni, si sta attrezzando per proteggersi: la sottovalutazione e l’impreparazione sono peccati capitali che possono risultare fatali, perché la crisi climatica è oggi. Mitigazione e adattamento devono procedere di pari passo.
L’Italia, ad esempio, dispone di un Piano nazionale per la prevenzione degli effetti del caldo sulla salute, fondato su sistemi di allarme (Heat health watch warning systems) che utilizzano le previsioni meteorologiche per prevedere, fino a settantadue ore di anticipo, una condizione climatica pericolosa per la salute della popolazione. Non sempre, però, queste strategie si rivelano sufficienti, perché una delle caratteristiche principali delle ondate di calore è proprio l’imprevedibilità.
Ad approfondire la questione è stato uno studio recentemente pubblicato su Nature Communications, secondo cui ci sono delle zone del mondo che – non avendo ancora sperimentato il caldo estremo – sono a rischio quasi come i territori generalmente più esposti alle temperature fuori dal “limite umano”. In questo caso, la ricerca si riferisce a Germania, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo, ma anche all’estremo oriente russo, all’Australia nordorientale e l’Argentina nordoccidentale.
Negli ultimi anni, anche nelle zone più fresche del nostro continente, sono stati sbriciolati quasi tutti i record negativi sui picchi di temperatura. Forse ricorderete l’ironman nel 2019 a Francoforte, con la concorrente al primo posto che è collassata sotto i trentanove gradi di quella torrida giornata di inizio luglio. Oppure, nel 2022, i 36,5 gradi a Feldkirch (Austria), i 39,2 gradi a Dresda (Germania) e i 38,2 gradi a Słubice (Polonia). Luoghi in cui i trenta gradi erano solitamente una rarità.
Ancora più impressionanti i dati del Regno Unito, che nell’estate 2022 ha superato per la prima volta i quaranta gradi. Secondo l’Health security agency britannica, nel Paese ci sono stati 2.803 morti in eccesso (al netto dei decessi dovuti al Covid) tra gli over 65.
La “mancanza di abitudine” è un fattore di rischio pericoloso quasi quanto la densità di popolazione (Pechino è una delle città più vulnerabili alle ondate di calore), la povertà, le condizioni territoriali sfavorevoli e altri fattori socioeconomici (l’Afghanistan è tra i Paesi più esposti al caldo estremo). Secondo lo studio, negli ultimi decenni abbiamo vissuto periodi di caldo totalmente al di fuori degli intervalli di plausibilità statistica: dal 1959 al 2021 è accaduto nel trentuno per cento della superficie terrestre.
«Le società dovrebbero restare umili dinanzi a tutti gli eventi estremi che possono sorgere. Spesso non siamo preparati nemmeno ad affrontare fenomeni con un indice di gravità basso», dice Karen A. McKinnon, professore di Statistica ambientale all’University of California, al New York Times. «Subito dopo una catastrofe, le persone e i politici sono molto consapevoli dei rischi e delle misure da attuare per reagire. Tuttavia, con il passare degli anni, si comincia a dimenticare. Abbiamo notato che alcune delle ondate di caldo più inaspettate hanno causato decine di migliaia di decessi», aggiunge Dann Mitchell, scienziato per il clima all’Università di Bristol e autore principale dello studio, che ha analizzato le temperature massime giornaliere in tutto il mondo dal 1959 al 2021.
Esistono però tanti altri fattori che rendono le ondate di caldo pericolose per la sopravvivenza dei cittadini. Ci riferiamo all’umidità, alla ventosità e alle temperature notturne (le notti tropicali, quando la temperatura non scende sotto i venti gradi, sono in aumento anche in Italia). Le ore notturne dovrebbero essere un sollievo per le fasce d’età più a rischio durante il giorno, ma non è sempre così. Un altro indicatore riguarda le aree verdi e gli alberi, generalmente concentrati nei quartieri più ricchi delle grandi città: come abbiamo spiegato qui, la gentrificazione climatica è il grande rischio dei progetti di riforestazione urbana.
La protezione dalle ondate di calore è anche un tema di disuguaglianze sociali, non solo per la copertura arborea. Un articolo pubblicato nel maggio 2022 sulla rivista Scientific American, intitolato “Air-Conditioning Should Be a Human Right in the Climate Crisis”, ricorda che nelle zone più calde del mondo il dodici per cento delle famiglie ha un impianto di aria condizionata, mentre negli Stati Uniti e in Giappone la quota supera il novanta per cento.