I venti a duecento chilometri orari della tempesta Eunice in Nord Europa. I circa millecinquecento morti a causa delle alluvioni in Pakistan. Gli uragani Fiona e Ian tra Canada, Cuba, Usa e vari Paesi caraibici. E poi la Marmolada; le Marche; Ischia. I 32°C a inizio maggio; i 40°C a Londra; le punte da più di 20°C a Natale. Gli oltre cento giorni consecutivi senza precipitazioni a Milano; le iconiche fontane delle nostre piazze spente per risparmiare acqua; lo stato d’emergenza per la siccità; le inquietanti e – a loro modo – storiche immagini del Po in preda alla secca peggiore degli ultimi settant’anni. La terra bruciata e compromessa; le lacrime degli agricoltori; il venti per cento di decessi in più a luglio a causa del caldo estremo. Tutto questo non può essere dimenticato.
Dal punto di vista climatico-ambientale, è stato un 2022 tristemente memorabile. L’anno in cui, non ci stancheremo mai di dirlo, un’emergenza che per molti sembrava lontana si è rivelata più concreta e spaventosa che mai. Un 2022 a prova di negazionisti, costantemente smentiti da fatti inequivocabili. Perché la crisi climatica non risparmia e non risparmierà nessuno. Anche di chi, come noi, vive in un Paese non considerato a rischio come uno Stato insulare in mezzo al Pacifico. Lo sapremo con certezza nel 2023, ma finora i dati dicono chiaramente che stiamo per lasciarci alle spalle l’anno più caldo da quando l’essere umano ha iniziato a registrare le informazioni inerenti alle temperature.
Tutti gli eventi citati nel paragrafo iniziale sono oggettivamente connessi a quella che dovrebbe essere trattata come l’emergenza principale del nostro periodo storico, ma che invece è rimasta ai margini della campagna elettorale estiva e dei programmi della coalizione che governerà l’Italia negli ultimi anni utili per cercare di limitare i danni. L’unico buon risultato è arrivato “sulla sirena”, come direbbe un telecronista durante una partita di pallacanestro, con l’inevitabile pubblicazione del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici aggiornato rispetto al 2018.
Ma torniamo al significato di “limitare i danni”. Questa espressione non racchiude solamente le azioni finalizzate alla riduzione delle emissioni e al contenimento del riscaldamento globale (che ha ormai raggiunto i +1,2°C rispetto ai livelli pre-industriali, flirtando con i +1,5°C stabiliti dall’accordo di Parigi), ma anche una serie di misure di adattamento. Bisogna imparare a vivere e a sopravvivere in queste condizioni sempre più ostiche, perché la crisi climatica è già qui e galoppa a un ritmo insostenibile per noi che siamo dei piccoli puntini sulla Terra. Puntini che, nel corso degli anni, hanno causato distruzione, dimenticandosi delle generazioni future.
L’ultima chiamata è adesso: è giunto il momento che questi puntini uniscano le forze per cercare di invertire la rotta. Il problema, però, è che non tutti i puntini hanno la stessa influenza. Ogni singolo cittadino, con le sue azioni quotidiane, può dare una mano alla causa, ma le sorti del pianeta sono – che ci piaccia o no – nelle mani dei potenti, di coloro che hanno la facoltà di firmare leggi, patti, trattati per favorire la crescita rinnovabile e la transizione ecologica, innescare un nuovo sistema produttivo, abbandonare i combustibili fossili e aiutare i Paesi più in difficoltà. Bisogna smettere di parlare di lotta alla crisi climatica come se fosse un mero problema di responsabilità individuale.
La partita decisiva si gioca nei palazzi dei governi nazionali e delle organizzazioni sovranazionali. Si gioca tra le mura delle grandi aziende che compongono il nostro tessuto produttivo. Non si gioca tra gli scaffali dei negozi in cui possiamo acquistare favolose borracce o sostenibilissimi spazzolini in bambù. Non si gioca in quelle pagine social che si limitano a mostrarci come pulire la casa con prodotti ecologici o come impacchettare i regali di Natale in modo green. Ciò non significa che siano cose poco rilevanti, ma il rischio di perdere di vista il nucleo della questione è elevato. Mai come ora è importante fare una distinzione netta tra chi parla di ambiente e clima in modo concreto e non patinato, e chi lo fa per inseguire le dinamiche consumistiche che hanno contribuito a creare il problema.
È per questo che tutti, anche chi (legittimamente) non ne condivide i modi, dovremmo guardare con costruttivo interesse all’attivismo e alla disobbedienza civile per il clima, che quest’anno hanno raggiunto livelli di notorietà e impatto mai visti prima. Gli autori delle azioni dimostrative sono spinti da motivazioni reali e puntano il dito contro i bersagli giusti, ossia chi – nel 2022 – ha autorizzato la ripartenza di circa ottanta progetti dedicati ai combustibili fossili.
L’invasione russa in Ucraina ha completamente cambiato le carte in tavola, segnando il ritorno dei combustibili fossili e il possibile fallimento della transizione energetica per come l’avevamo immaginata. Si tratta dell’ennesimo passo indietro di un 2022 in cui gli attivisti, assieme a tutta la società civile, sono rimasti esclusi dalla Cop più sorvegliata di sempre. La stessa conferenza in cui, nonostante le occasioni perse in termini di mitigazione, è stato però raggiunto un accordo che non dobbiamo aver paura a definire storico: i Paesi più poveri dovranno essere risarciti dai Paesi più ricchi che, con le loro sfrenate attività produttive, hanno innescato e aggravato la crisi climatica.
Loss and damage, perdite e danni. Chi ha causato il disastro deve tutelare i più vulnerabili e – al tempo stesso – meno responsabili del problema. Una delle speranze del 2023 è che questo fondo venga realmente (e rapidamente) ottimizzato. Il futuro non è roseo ma nemmeno totalmente compromesso: la finestra, come mostra la copertina dell’ultimo Emissions gap report dell’Onu, si sta per chiudere. Però c’è ancora uno spiraglio. E il suo restringimento o allargamento dipenderanno anche da ciò che accadrà nell’anno che verrà. Noi, come sempre, saremo qui per raccontarvelo.