L’intervento pubblico non richiede solo risorse finanziarie, ma capacità amministrativa che a sua volta prevede capacità di leggere i dati, valutazione tecnica, programmazione e capacità di spesa. Quest’ultima attiene alla realizzazione di progetti, di politiche e richiede competenze, spesso diverse da quelle giuridiche. Il conflitto perenne e la mancanza di fiducia tra una politica transeunte e una dirigenza intimorita portino spesso ad assumere decisioni senza avere a disposizione né dati né informazioni. I tempi della politica mediatica e l’atteggiamento della dirigenza, volto a non contrariare il policy maker, stanno portando a prendere molte decisioni alla cieca. E forse, è quello che è accaduto con il Pnrr.
A monte abbiamo innanzitutto un problema di pianificazione, dovuto alla difficoltà, in corso da un paio d’anni, su quali progetti mettere nell’N+3 della programmazione 2014-2020, quali nel Pnrr e quali invece nella programmazione 2021-2027. L’errore è stato che nessuno si è preoccupato del fatto che i duecento miliardi richiesti per il Pnrr si sarebbero aggiunti a quelli previsti da altri fondi dell’Unione europea, sui quali registriamo difficoltà storiche e strutturali, soprattutto a livello regionale, locale e al sud.
Aver aggiunto altre risorse da programmare e da spendere (bene) non poteva che mettere in crisi una struttura amministrativa storicamente debole, soprattutto sulla capacità di messa a terra delle politiche pubbliche. Sono tante ormai quelle politiche in cui riscontriamo difficoltà di attuazione e di gestione, si pensi a temi chiave quali sanità, lavoro, ambiente o infrastrutture: una debolezza connessa alla mancanza di competenze tecniche qualificate e a una visione dell’azione pubblica che ha al centro le procedure piuttosto che i risultati.
I concorsi veloci e semplificati degli ultimi due anni non hanno consentito di reclutare gli esperti necessari per il Pnrr (e non solo): si è puntato sui neolaureati e invece sarebbero stati necessari anni di esperienza.
La quarta area di inquadramento per remunerare adeguatamente le poche competenze specialistiche presenti nel mercato del lavoro, introdotta nel decreto-legge 80/2021, è rimasta sulla carta, in quanto poco incentivata. Le competenze tecniche mancano da decenni nelle Pubbliche amministrazioni e nel mercato del lavoro di oggi non si reclutano certamente con i concorsi a “strascico” (vedi concorso unico): procedure inutili e dannose perché riempiono le Pubbliche amministrazioni di personale non necessario, non corrispondente al fabbisogno reale, e che comportano un elevato turnover con costi importanti per le stesse.
Da decenni si supplisce alla mancanza di competenze specialistiche attraverso le assistenze tecniche, tanto vituperate e ignorate con manifestazioni di orgoglio infondate, quanto ormai essenziali in molte Pubbliche amministrazioni. Si tratta di saperle usare evitando atteggiamenti farisaici.
Parlare di duecentomila o trecentomila assunzioni nei prossimi cinque anni potrà risolvere altri problemi, ma non certamente quelli della spesa del Pnrr. Le assunzioni dovrebbero poggiare su fabbisogni ponderati, avendo una visione prospettica e moderna delle competenze necessarie nei diversi settori e non sui cessati assunti quaranta anni prima.
Le competenze, inoltre, si formano nel tempo con alcuni anni di esperienza e noi non solo oggi non abbiamo tempo, ma non riusciamo nemmeno a remunerarle adeguatamente per competere con il settore privato. Non basta più il fascino del posto fisso per attrarre le competenze, né la promessa di una veloce stabilizzazione dopo pochi mesi.
Evitiamo di sbagliare ancora il reclutamento: la Pubblica amministrazione l’ha sempre trascurato, preoccupandosi esclusivamente di evitare ricorsi nei bandi. Il tema della qualità del reclutamento e dei suoi obiettivi non si è posto per il ricorso tanto significativo quanto necessario alle assistenze tecniche e nemmeno per non aver mai valutato con rigore e serietà cosa è realmente accaduto nella gestione dei fondi dell’Unione europea. Il nostro personale doveva soprattutto verificare la compliance rispetto alle leggi e non tendere a un valore aggiunto.
Oggi la sfida non è costituita dal target finanziario formale, conseguito “a prescindere” per non dover restituire all’Unione europea le risorse inutilizzate nei tempi fissati (rischio disimpegno automatico), ma è quello sostanziale, con il quale siamo costretti a fare i conti con le risorse del Pnrr. Così dovrebbe essere sempre se puntiamo a far emergere il valore pubblico nell’azione amministrativa.
Veniamo da una gestione più semplice rispetto a quella del Pnrr, in quanto per i tradizionali fondi dell’Unione europea – per i quali sono stati ammessi diversi strumenti di flessibilità – si è sempre fatto ricorso ai cosiddetti “progetti retrospettivi” (o coerenti, sponda, ammissibili, ecc.), cioè alla rendicontazione per il rimborso dell’Unione europea di progetti spesso non avviati con risorse comunitarie, ma considerati, appunto, coerenti con gli obiettivi dei programmi operativi.
Rendicontati in aggiunta o in sostituzione di quelli inizialmente programmati, selezionati e finanziati con i Pon e i Por, ma in ritardo di attuazione. In generale, tale modus operandi, pur formalmente in linea con i Po, ha influito sulle politiche settoriali previste nei programmi, comportando una negazione o deviazione dalle intenzioni originarie, il tutto in barba al principio di addizionalità.
In questo modo abbiamo avuto un considerevole aumento di risorse e progetti da realizzare e monitorare, insieme alla dilatazione temporale degli investimenti, trovandoci a finanziare iniziative spesso isolate ed episodiche. Diversi, infine, gli artifizi finanziari tra i sussidi europei e cofinanziamento, che consentono di raggiungere i target formali, ma non di sapere se la scuola, l’ospedale, l’infrastruttura sono state realizzate.
La discontinuità amministrativa non aiuta. Come avviene dopo ogni cambio di governo, in questi mesi siamo alle prese con numerose riorganizzazioni ministeriali e regionali che certamente non favoriscono quella tempestività ed efficacia richiesta dal Pnrr.
Oggi, l’insieme delle risorse da gestire fa tremare i polsi se si considerano i fondi in arrivo sulla programmazione 2021-2027 che tra contributo europeo e fondi nazionali arrivano a 143,5 miliardi, il settanta per cento dei quali destinati al Mezzogiorno, e che si aggiungono alla coda delle risorse della programmazione 2014-2020 (altri centoquaranta miliardi complessivi, di cui 64,8 miliardi sui Fondi Strutturali). Le spese certificate al 31 dicembre 2022 della programmazione 2014-2020 hanno finora raggiunto i 35,02 miliardi, corrispondenti a circa il 58,4 per cento delle risorse programmate, con importanti e ormai consuete differenze sulla spesa tra le regioni meno sviluppate e quelle più sviluppate
L’Accordo di partenariato approvato il 19 luglio 2022, reca l’impianto strategico e la selezione degli obiettivi di policy su cui si concentrano gli interventi finanziati dai Fondi europei per la coesione per il ciclo di programmazione 2021-2027.
Si tratta, nel complesso, di circa 43,1 miliardi di risorse comunitarie assegnate all’Italia. Di queste, oltre 42,7 miliardi sono destinate specificamente a promuovere la politica di coesione economica, sociale e territoriale, in gran parte destinata alle regioni meno sviluppate (oltre trenta miliardi). Ai contributi europei si aggiungono le risorse derivanti dal cofinanziamento nazionale, per un totale di risorse finanziarie, programmate nell’Accordo di partenariato per il periodo di programmazione 2021-2027, pari a oltre settantacinque miliardi di euro complessivi, senza considerare i programmi nazionali complementari e della coesione con cui si va al raddoppio: più di dieci miliardi l’anno solo di fondi europei.
Un’operazione verità è necessaria per evitare di sbagliare in futuro. Questo non riguarda solo il Pnrr, ma anche il modo flessibile con il quale abbiamo utilizzato i fondi dell’Unione europea negli ultimi decenni, per capire qual è la nostra capacità amministrativa.
Ad avviso di chi scrive, sul Pnrr c’è stato un errore a monte, derivante dalla mancanza di informazioni sulle risorse complessivamente a disposizione ancora da spendere e su quelle che sarebbero ulteriormente arrivate. Ma soprattutto, è mancata una riflessione seria sulla capacità amministrativa e di spesa delle nostre amministrazioni. Questo ci avrebbe permesso, banalmente, di capire cosa siamo capaci di fare e cosa fare per aumentare la capacità amministrativa. Tutto questo prima di assumersi impegni importanti, tali da mettere in gioco la reputazione e il futuro del Paese.