Silicon Valley nelle aree internePerché la proposta di Urso di ripopolare i piccoli centri non può funzionare

Il ministro del Made in Italy ha annunciato il progetto “Lavora nel mondo, vivi in Italia” per aiutare i borghi e le aree interne, ma non parla agli italiani, ignora i modelli virtuosi già esistenti e non ha prospettive di lungo periodo

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Le parole di alcuni giorni fa del ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, a Vinitaly, hanno riproposto il dibattito su due temi tanto citati quanto, spesso, affrontati male: il ripopolamento delle aree interne e lo smart working.

Urso, infatti, ha annunciato una prossima iniziativa del governo volta a ripopolare borghi e paesini attraverso il lavoro da remoto: «Tra i prossimi provvedimenti su cui stiamo lavorando, uno riguarda il territorio, la promozione del nostro Paese e il ripopolamento dei piccoli centri», ha affermato il ministro, per il quale il progetto si chiamerà “Lavora nel mondo, vivi in Italia”: «Vogliamo attrarre i navigatori digitali per ripopolare i borghi italiani», specificando che «l’iniziativa riguarderà coloro che pur mantenendo la propria attività fuori dai nostri confini decidono di vivere nel luogo più bello del mondo, appunto l’Italia».

Così delineata la proposta solleva più di qualche interrogativo tanto sull’efficacia reale quanto sul suo stesso senso. Innanzitutto, non si capisce bene a che tipo di figure faccia riferimento Urso, che parla di «navigatori digitali»: una formula così vuota da potersi applicare a varie categorie, e rivelatoria di un’incomprensione di fondo di certe realtà.

Quello che si capisce chiaramente, però, è che l’iniziativa è pensata per chi mantiene la propria attività «fuori dai nostri confini»: che sia un lavoro subordinato o autonomo, insomma, sembra che la misura nasca per soggetti che lavorano per realtà straniere, siano essi programmatori californiani che si spostano a Rocchetta Sant’Antonio o freelance australiani fully remote che decidono di vivere in un borgo umbro.

In effetti, proprio il rivolgersi esclusivamente a stranieri rischia di trasformare la misura in un nulla di fatto, nel migliore dei casi, o in qualcosa di deleterio per i territori, nel peggiore. Se è vero che negli ultimi anni sono aumentati i lavori completamente da remoto, nonostante l’irresistibile retorica sul «luogo più bello del mondo» non è automatico che uno straniero decida di trasferirsi in un borgo italiano (molti dei quali, tra l’altro, non hanno le infrastrutture digitali necessarie).

In linea con quanto si osserva da anni in merito ai nomadi digitali, è inoltre ipotizzabile che, anche quando ciò avvenisse, sarebbe per brevi periodi, senza dar luogo a sistemazioni stabili, quindi senza un reale impatto sul ripopolamento di aree depresse attraverso la natalità. In altri termini, è difficile che chi non ha un particolare legame con i borghi italiani li elegga a sede definitiva della sua vita come di quella dei propri figli.

Ci sono, inoltre, una serie di questioni fiscali da considerare: ad oggi, è problematico vivere stabilmente in un posto lavorando con un contratto subordinato di un altro ordinamento, una questione che lo stesso Parlamento europeo ha mostrato di aver ben presente, sottolineando la necessità di uniformare la situazione nel mercato unico. Nelle sue dichiarazioni, Urso non ha accennato a eventuali interventi in tal senso, e anzi non ha nemmeno spiegato come si sostanzierebbe, in concreto, la misura di cui si parla. Va considerato, poi, che l’eventuale arrivo di lavoratori tech, con stipendi molto diversi da quelli medi dei borghi italiani, potrebbe favorire dinamiche di gentrificazione invece che ripopolamento.

Se l’obiettivo è ripopolare aree che negli scorsi decenni hanno visto diminuire la propria popolazione, al punto da metterne a rischio, in alcuni casi, la stessa sopravvivenza, viene da chiedersi perché il governo abbia scelto di non guardare ai lavoratori italiani, cioè a quelle persone che verrebbero coinvolte con più facilità ed efficacia. Se, in altri termini, l’obiettivo è invertire un trend, la cosa più immediata potrebbe essere rivolgersi a chi quel trend lo ha incarnato.

Secondo un’indagine Svimez, nei primi mesi della pandemia oltre quarantacinquemila persone che lavorano al centro-nord sono tornate temporaneamente ai loro luoghi di origine al sud, vista la possibilità di svolgere il lavoro regolarmente da remoto. Un dato che, in realtà, sottostima fortemente i numeri reali, visto che l’indagine ha riguardato solo aziende oltre i duecentocinquanta dipendenti. L’associazione Southworking, attiva sul tema, ha svolto un sondaggio su circa duemila persone che, potendo, tornerebbero a vivere al sud: l’ottanta per cento di queste ha tra i venticinque e i quarant’anni, ha una laurea (principalmente in Ingegneria, Economia e Giurisprudenza) e, nel sessantatré per cento dei casi, un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

In altri termini, esiste già, in Italia, una disponibilità a ripopolare aree, borghi, paesi, e spesso questa viene da persone giovani e formate, che potrebbero rappresentare una risorsa strategica per territori in declino tanto sul piano produttivo quanto demografico. E non c’è motivo di pensare che la situazione dei borghi del centro-nord sia così diversa da quella del sud, che ha ottenuto maggiore attenzione sul fronte statistico per ragioni legate alla strutturalità dell’emigrazione meridionale.

Connettere i puntini è un’operazione così semplice che viene da chiedersi perché Urso e il governo immagino di ripopolare i borghi puntando sugli smartworker di Palo Alto – dei quali è da verificare non solo l’interesse ma persino l’esistenza, nei modi in cui la tratteggia Urso – che su quelle persone che, per motivi affettivi, economici, familiari o di altra natura sarebbero più propensi a spostarsi nelle realtà di cui si discute, rappresentando un asset strategico per quei territori.

È quello che, ad esempio, è avvenuto in Portogallo, dove il programma MAIS ha visto il governo varare finanziamenti a lavoratori digitali che si trasferivano nelle aree più povere del Paese, recentemente esteso a lavoratori di tutta l’Unione europea. Iniziative del genere si sono moltiplicate, negli anni, in diversi Paesi: in Italia, il progetto “Case a 1 Euro” ha visto risultati altalenanti, anche a causa della difficoltà da parte di molti a trasferirsi in luoghi remoti senza poter conservare il lavoro di prima. In uno dei casi più riusciti, a Ollolai, in provincia di Nuoro, il progetto è riuscito a ripopolare il borgo, ma le attività che ne sono nate (un B&B, un centro di fisioterapia, una casa vacanze) non sono riuscite a cambiare la vocazione del territorio, concentrandosi solo sul piano turistico.

In effetti, il Pnrr destina circa un miliardo al “Piano Borghi”, ma questo riguarda interventi legati al patrimonio storico, percorsi turistici, attività culturali e artigianali: è come se i borghi, in Italia, venissero sempre visti dal punto di vista storico-turistico, ignorando come la rivoluzione digitale potrebbe sprigionare il loro potenziale produttivo ed economico.

«Lo smart working può essere strategico nel rilanciare borghi e aree interne», dice Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio Smart working del Politecnico di Milano, «ma questa operazione deve basarsi su una serie di interventi e incentivi alle comunità locali, senza limitarsi a guardare persone che lavorano per aziende estere ma coinvolgendo in primis chi è legato alle comunità in oggetto, lavorando anche sulle resistenze culturali che oggi impediscono di sfruttare pienamente il potenziale di nuove forme lavoro».

Secondo l’Osservatorio, che opera da più di un decennio, con la fine della pandemia i lavoratori da remoto nel nostro Paese sono diminuiti (quasi mezzo milione in meno tra 2022 e 2021), ma questo si deve soprattutto a piccole e medie imprese: nelle grandi aziende, infatti, i lavoratori da remoto sono aumentati. Un dato che testimonia come oggi, più che i dati oggettivi, sulla valutazione dello smart working influiscano ancora vecchi paradigmi culturali.

Secondo i dati dell’Osservatorio del Politecnico i lavoratori in smart working hanno spesso un maggior benessere psicologico e relazionale, che si riflette sulle prestazioni lavorative: un’analisi di CapGemini, con lo smart working il sessantatré per cento delle imprese ha notato un aumento della produttività già durante la pandemia. Anche sul piano ambientale i vantaggi sono rilevanti: a causa dei minori spostamenti, un recente studio Enea ha rilevato come lo smart working abbatte di circa il quaranta per cento le emissioni pro-capite di ogni persona.

Anche la competitività tra imprese nella ricerca dei profili più richiesti è influenzata dallo smart working: un’indagine della Banca Centrale Europea ha rivelato come le persone tendano a cambiare più facilmente lavoro se percepiscono che le loro preferenze in materia di lavoro agile sono più sviluppate di quelle dei superiori, mentre secondo FlexJobs il sessantatré per cento dei lavoratori italiani lascerebbe il proprio posto a fronte di una riduzione del lavoro da remoto. In altri termini, oggi chiudersi nei confronti del lavoro da remoto può voler dire doversi anche accontentare nella ricerca di profili e competenze.

Lo smart working, dunque, lungi dall’essere solo uno strumento per il ripopolamento di aree interne, è prima di tutto un tema di produttività e innovazione. Vale la pena, pertanto, chiedersi se la «promozione del nostro Paese» di cui parla Urso debba intendersi solo su un piano “da cartolina”, a uso e consumo di mitologici lavoratori dall’estero, o non possa invece essere declinata più profondamente sul piano produttivo, ambientale ed economico, governando una trasformazione destinata a incidere profondamente sul futuro del lavoro.

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