Forse l’incipit è: io e Fabio De Luca abbiamo fatto il militare insieme. O forse l’incipit è: Giorgia, ti spiego cos’è un underdog. O forse l’incipit è: in Italia non si possono recensire i libri perché ci conosciamo tutti. In ogni caso, anche oggi parliamo di me.
La prima volta in cui vedo Fabio De Luca è l’estate di venticinque anni fa. O forse no, forse ci eravamo incrociati prima, nei corridoi di RadioRai, negli anni in cui tutti e due avevamo fatto cose lì, ma: voialtri che leggete qui e sapete quanto trascorra ogni giornata all’altare del mio ego a cinquant’anni, quanta attenzione pensate prestassi agli altri a venti e qualcosa?
L’estate di venticinque anni fa, dunque, io e questo tizio genovese e un po’ di altra gente veniamo ammucchiati in una stanza di via Asiago, con l’intenzione più patetica e immobile che allora e oggi accomuna i mezzi di comunicazione tutti: fare un programma che parli ai giovani.
Non solo non ci riusciremo, ma il programma sarà un’ecatombe interna di esaurimenti nervosi e abbandoni e rimostranze. Oggi ci sarebbero i titoli sui giornali che raccontano “l’ambiente tossico”; all’epoca se potevi te ne andavi – se ne andarono quasi tutti – e se non potevi restavi: io e Fabio fummo gli unici a restare (eravamo gli unici che non volessero chiedere alla mamma i soldi dell’affitto, plausibilmente).
Fantasticavamo leggendo i siti americani che raccontavano che, l’anno prima, quelli della troupe di James Cameron si erano fatti fare le magliette I survived Titanic: ce le faremo anche noi, usciti da qui? Oggi, quell’anno di naja mi è tornato in mente scoprendo che Johnson Righeira non poteva promuovere “Vamos a la playa” quanto avrebbe voluto perché stava facendo il servizio di leva. Gianni Morandi a inizio carriera faceva il servizio di leva. Jovanotti faceva il servizio di leva. Possibile che nessuno abbia ancora scritto una storia del pop e della leva obbligatoria?
La storia dei Righeira l’ho letta dentro a “Oh, oh, oh, oh, oh – I Righeira, la playa e l’estate 1983”, che è uno di quei libri ogni dettaglio della cui confezione dice un dramma comune: l’editore che non capisce che libro sta pubblicando. Quella di Fabio De Luca è una storia sociale della provincia italiana negli anni Ottanta, è una ricognizione di ciò che è successo da quando le canzonette hanno sostituito il cibo nella memoria collettiva e personale, ed è – ma questo a Nottetempo non potevano saperlo: avrebbero dovuto telefonarmi – il libro che poteva scrivere solo quello cui non avrei dato una lira.
L’underdog è quello su cui non scommetteresti una lira, anche se quando la Meloni ha usato per sé la definizione abbiamo fatto finta di non capire (pure lei: poteva dirlo in italiano, sarebbe da multarla). Alla scrivania collettiva di quella redazione di venticinque anni fa, l’underdog sedeva di fianco a me (anche prima che restassimo solo noi, nella redazione che i topi abbandonarono ben prima delle puttane).
Di fronte a lui c’era il nostro capo. Fabio un giorno scartabellava il gadget di non so quale prodotto audiovisivo (le case da ventenni e trentenni di noialtri che bazzicavamo il pop erano piene di gadget orrendi, modi in cui il cinema e la musica mostravano d’avere soldi da buttare; per anni, la mia lampada da notte è stata il gadget d’una canzone di Vasco Rossi: sono molto pentita d’averla a un certo punto buttata).
Il capo gli chiede cosa sia quell’affare con cui sta trafficando, e Fabio glielo lancia. È un fiore di stoffa, e quindi quello dice: ah, mi colpisci con un fiore. Fabio lo guarda come mucca guarda treno, e io metto su il mio miglior tono da «santo cielo mi tocca sempre insegnare cose a questa gente impreparata» e dico: ma su, Lou Reed.
Vicious, you hit me with a flower: che la sapessi – io che non so i Velvet Underground ma so le parole delle canzonette anche dei gruppi che non so – era abbastanza normale; che avessi quel tono, anche.
E infatti Fabio non si scompone – non l’ho mai visto scomporsi, in quel naufragio durato un anno – ma dice col più matter-of-factly dei toni la cosa più precisa che chiunque abbia mai detto di me: certo che quelle quattro cose che sai le fai cadere veramente dall’alto. Quello fu l’anno più formativo della mia vita per molte ragioni, tra le quali il mattino in cui capii che quelli su cui non punteresti una lira usano quel vantaggio per notare tutto e pittarti con un’esattezza che mai t’aspetteresti.
Ci ho ripensato per tutta la lettura di questo libro che racconta l’inizio degli anni Ottanta – giacché, come ha detto prima di Fabio e di me Chuck Klosterman, i decenni hanno a che fare con la percezione culturale, mica col calendario: per De Luca, gli anni Ottanta italiani iniziano coi mondiali dell’82 – e in particolare l’83.
L’anno in cui, a Bologna, io vengo portata al cinema a vedere “Yentl”, e in piazza Maggiore a sentire Miguel Bosé che canta “Non siamo soli”, e una docente del Dams viene assassinata (inspiegabilmente, Fabio ritiene che solo uno dei tre fatti sia da citare come contesto sociale dell’anno in cui escono “Vamos a la playa” e “Sunday Bloody Sunday”).
Ho annuito dicendo «io lo sapevo che quello lì notava tutto» quando Fabio dice che la musica italiana di quegli anni era abbastanza dotata di carattere da costituire un argine alla pigrizia critica della formula il-nuovo-qualcosa: «Vasco non è il nuovo Venditti, Carboni non è il nuovo Dalla, i Righeira non sono il nuovo Alberto Camerini».
Mi sono annotata che devo scrivere di quando guardavamo gli indirizzi in fondo alle riviste di moda, e non riuscivamo mai a comprare i capi fotografati perché i negozi erano sempre di Milano, quando Fabio parla della provincia da cui venivano certi gruppi che passavano alla radio, «lo stupore e forse il piacere di vivere in un paese dove la creatività e l’innovazione erano ormai diffuse, dove le cose non succedevano solo a Milano e a Roma».
Ho scoperto che esiste un video in cui a Madonna, in una tv locale americana, chiedono di presentare “Vamos a la playa”, e se c’è una cosa che invecchiando diventa rara e deliziosa è scoprire cose che non sapevi degli argomenti che più o meno conosci (e anche consolarti pensando che allora non eri l’unica imbecille a pensare che a durare sarebbe stata Cyndi Lauper, e Madonna fosse una sciacquetta cui far annunciare la canzone dei Righeira).
Ho pensato che la chiosa a certe dichiarazioni vagamente fasciste in interviste dell’epoca, «erano gli anni in cui bastava travisare a proprio gusto il concetto di “pensiero debole” per poter dire con serenità, e impunemente, qualunque cosa», vale cinquanta editoriali politici.
Soprattutto, ho pensato a noialtri neppure trentenni in quelle stanze orrende della Rai, in rappresentanza di giovani cui non somigliavamo esattamente come ora non somigliamo ai cinquantenni, noialtri che stavamo lì per diritto anagrafico, col criterio con cui vent’anni prima i genitori ci avrebbero detto «vai a fare amicizia con quel bambino, ha la tua età».
A un certo punto di “Oh, oh, oh, oh, oh” (sono cinque gli «oh», devo contarli ogni volta che trascrivo il titolo) ci sono queste righe qui: «La burocrazia volutamente stupida, le attese inutili, il freddo e il caldo spacciati per valori educativi, la sporcizia, l’eccitazione sciocca dei più nevrotici o meno intelligenti tra i graduati nel poter disporre a piacer loro della tua vita». Fabio fa finta di parlare della naja d’un cantante nell’83, ma è ovvio che sta parlando di noialtri nel ’98.
Noialtri che non lo sapevamo ma avevamo lo stesso limite di quella canzone in fase di produzione: «Era forte, però era triste, e quindi bisognava trovare un modo per renderla allegra». Lo stesso limite, cioè la stessa giovinezza.