Era il 1994. Era il 1998. Era il 2001. Era il 2006. Era la settimana scorsa.
La settimana scorsa l’Hollywood Reporter prima e il New York Times poi si sono dilungati sul segreto meno segreto di Hollywood: Scott Rudin è uno stronzo.
Scott Rudin è un produttore di successo. Di successo al presente, non come quando il segreto meno segreto era la porconaggine di Harvey Weinstein e, per renderla uno scoop, i giornali ce lo vendevano come un produttore potente anche se erano anni che non imbroccava più un film.
Diversamente da Weinstein, Rudin non è un relitto del Novecento: ha prodotto roba di successo – di pubblico o di critica – anche negli ultimi anni. The Newsroom e Lady Bird, The Social Network e Diamanti grezzi. Eccetera. E un sacco di teatro. Era il produttore più amato dagli scrittori, quello che riusciva a far diventare commerciali i progetti d’autore senza snaturarli.
Ed era anche uno noto per il carattere di merda. Lo sappiamo almeno dal 2014, quando degli hacker coreani pubblicarono le mail delle caselle di posta della Sony, e la corrispondenza tra la capa della casa di produzione e Rudin era un incubo in termini di pubbliche relazioni. Rudin parlava di Angelina Jolie col disprezzo e la condiscendenza con cui un personaggio di Parenti serpenti parlerebbe d’una cognata. Se neppure una delle massime dive hollywoodiane ti rende reverenziale, immagina che toni puoi avere con una segretaria.
Ma quando arrivarono le mail della Sony lo sapevamo già da vent’anni, se nel Novecento andavamo al cinema e avevamo visto Il prezzo di Hollywood. Il regista e sceneggiatore del film aveva lavorato come assistente d’un produttore (Joel Silver), e aveva raccontato che la storia di quel personaggio sadico, isterico, incontentabile – un giovane e già favoloso Kevin Spacey, nel ruolo del dirigente d’una casa di produzione che, come vocativo più gentile nei confronti d’un assistente, usa «mongoloide» – non parlava poi tanto di Rudin. Giacché tra assistenti si raccontavano il peggio dei loro capi, e le storie degli assistenti di Rudin erano inutilizzabili: troppo estreme, non sarebbero state verosimili.
Quindi, quando abbiamo iniziato a leggere d’una matita lanciata contro la nuca d’una segretaria, abbiamo pensato che vabbè, che sarà mai, Kevin Spacey lanciava l’intero portamatite e praticamente un’intera scrivania, contro il tapino.
Quando abbiamo letto la storia della patata (una patata al cartoccio che Rudin ha lanciato contro la vittima del giorno), ci siamo ricordati del personaggio dell’assistente di Spacey che fa la lavatrice perché il capo gli ha lanciato un bagel con troppo formaggio che gli aveva portato.
Quando gli americani si sono stravolti riferendo che Rudin aveva fatto scendere un assistente da una macchina neppure ferma perché quello aveva sbagliato a pronunciare un nome, ci siamo spiegati la parte al presente del film, quella in cui l’assistente cerca di uccidere Spacey: non aveva abbastanza tempra per i prezzi di Hollywood.
Quando Vulture ha pubblicato uno schemino degli insulti più usati da Rudin («Hai il cervello come una lenticchia»), ai più cinefili di noi sono sembrati tutto sommato blandi rispetto allo «scusami un attimo, devo cazziare quel mongoloide cerebroleso del mio assistente» di Spacey.
Quando lo scrittore Michael Chabon si è scusato per aver continuato a lavorare per Rudin nonostante sapesse quant’era cafone con gli assistenti, abbiamo pensato che al suo posto avremmo fatto lo stesso, come l’aspirante sceneggiatrice in quel film; quando il New York Times ha fatto l’elenco di attori e sceneggiatori che si sono rifiutati di rispondere a domande su Rudin, abbiamo sperato che nessuno ci additasse mai come mancati accusatori dei nostri ex capi stronzi.
Quando avevo ventisei anni, piangevo tutti i giorni. Lavoravo per un programma radiofonico il cui capo era l’uomo più stronzo del mondo. Kevin Spacey in confronto era una passeggiata di salute. Alla fine dei nove mesi di programmazione, eravamo rimasti in due, di quelli che erano lì a fare da sacchi da boxe dal primo giorno. Tutti gli altri si erano licenziati, perché farsi dare degli imbecilli nei giorni buoni e farsi fare scenate al minimo pretesto nei giorni cattivi è una cosa che, potendo, ti risparmi: eravamo rimasti in due, eravamo i due che con gli emolumenti di quel programma dovevano pagare l’affitto. Gli altri erano tornati dalle mamme.
Se tornassi indietro, rifarei tutto quell’anno. Non perché sia autolesionista, ma perché è l’anno della mia vita in cui ho imparato di più. Se oggi so che Kevin Spacey in quel film era Scott Rudin, e che un film di ventisette anni fa raccontava un fatto di cronaca della settimana scorsa, è perché quel capo stronzo mi ha insegnato cosa leggere e come mettere in collegamento le cose.
Poi è arrivato il 2006, e con esso Il diavolo veste Prada; a formare la sensibilità d’un’intera generazione di lagne: generazione che, all’uscita dal cinema, pensava che Anne Hathaway fosse l’eroica vittima, mica una povera cretina che lavorando in un giornale di moda chiede come si scriva «Gabbana», e alla quale Meryl Streep tenta invano d’insegnare a stare al mondo. Quel che un’intera generazione tiene a mente del Diavolo veste Prada è quanto sia stronza la capa a lanciare il cappotto sulla scrivania dell’assistente, mica quanto sia ciuccia l’assistente a non sapere che sfumatura d’azzurro sia il ceruleo.
E quindi figuriamoci, l’indignazione per la sgarberia di Rudin è massima. Intendiamoci: è un progresso. Nel 2021 gli americani hanno scoperto che non di solo sesso vivono i soprusi, e questo è un bene. Ma continuano a mancare il punto. E quindi, dicevo, il 2001.
Quando avevo ventinove anni lavorai per qualche settimana nella redazione d’un programma televisivo (qualche settimana per la quale devono ancora pagarmi, che è il vero sopruso su cui vorrei concentrarmi, altro che i lanci di patate al forno).
La ragione per cui non restai lì tutta la stagione è che un giorno un altro redattore – uno che non aveva mai lavorato in televisione ma era lì perché amico di qualcuno – pensò bene di schiaffeggiarmi. Chissà oggi cosa succederebbe, se in una redazione televisiva una donna si prendesse un ceffone. Allora non successe niente: la curatrice del programma – una che non aveva mai lavorato in televisione ma era lì perché moglie di qualcuno – mi disse «Eh, però pure tu, te le cerchi»; a nessuno venne in mente di mandar via l’inqualificato; io mi rifiutai di continuare a lavorare lì.
Non è un episodio memorabile, lo cito solo in contrapposizione a quello del 1998. Lo cito solo per dire che, se me ne andai per un ceffone d’un secondo e non per un anno di pianti, non è perché nel 2001 avessi meno bisogno di guadagnare; è perché, dal sopruso d’ufficio dei miei ventinove anni, io non ho imparato niente. Non c’era nessuno, in quella redazione, che fosse in grado d’insegnarmi qualcosa.
All’inizio di Il prezzo di Hollywood, l’assistente che se ne sta andando dice a quello nuovo che, a farsi maltrattare da Kevin Spacey, poi si fa carriera come produttori. Quando esce dalle grinfie di Meryl Streep, Anne Hathaway ha imparato un mestiere (oltre che a vestirsi). Nel 2021 come negli anni Novanta, la domanda mi pare sia sempre la stessa: non «qualcuno ha osato essere scortese con te?», ma «ne sei uscito con un corredo di conoscenze più ampio?». Preferisci finire il tuo apprendistato senza i segni della patata arrosto sulla camicia, o avere qualche trauma da raccontare ai giornali, ma anche conoscere un mestiere che prima ignoravi?