Crescere nel turismo non significa semplicemente aumentare le presenze turistiche. Eppure è quello che si crede – saremmo tentati di dire -, da sempre. Ogni qual volta si parla di turismo, ecco il numero delle presenze come principale, se non unico, indicatore della congiuntura. Non avviene in nessun altro ambito dell’economia, che si contino le quantità prodotte, senza badare al loro valore, cioè al prezzo cui si vendono i beni e servizi. Nel nostro caso, fermarsi al numero delle presenze turistiche, senza valutare il loro impatto economico, serve a poco. Anzi, per analogia, sia pur solo evocativa, questa concezione fa venire in mente le economie ex-sovietiche, quando i prezzi dei beni e servizi venivano stabiliti con la legge (cioè, normativamente) e perciò l’unica cosa che contava erano le quantità prodotte. I piani quinquennali si basavano sul numero di automobili prodotte o sul numero case costruite, ma il loro valore era un mistero. Un mistero cui si dava risposta con la legge e non con il mercato.
Le presenze turistiche sono una condizione necessaria, ma non sufficiente per estrarre ricchezza dal turismo, ma non tutte sono uguali, dal punto di vista economico: in alcuni casi creano effetti espansivi notevoli e in altri no. E non è una questione che riguardi solo o principalmente il reddito pro-capite dei visitatori, quanto del modello turistico entro cui si muovono, quello che ciascuna destinazione adotta o si ritrova, magari semplicemente per forza d’inerzia, che non porta mai a domandarsi quali siano le scelte giuste da fare.
Sull’impatto economico del turismo abbiamo oggi una ricerca, “Alberghi e affitti brevi”, dove si vede chiaramente come in Italia si stiano delineando, con sempre maggiore distinzione, appunto due modelli di sviluppo turistico: uno fondato sugli alberghi e l’altro sugli affitti brevi, cioè sull’uso turistico delle normali abitazioni residenziali. Da un lato ci sono destinazioni come Rimini, Jesolo e altre, soprattutto nella parte nord del paese, dove il modello alberghiero prevale in maniera netta e l’impatto economico è notevolissimo e dall’altro, soprattutto fra le destinazioni turistiche balneari di Puglia, Sardegna e Calabria, dove prevale l’offerta di abitazioni per affitti brevi e l’impatto sull’economia locale è decisamente minore.
Per le grandi città d’arte abbiamo un modello ibrido, anche se tutto va cambiando rapidamente, perché si stima che le presenze non registrate, quelle solitamente indirizzate verso gli affitti brevi, rappresentino circa il 30 per cento del totale, perciò pesano molto, ma non prevalgono. In sostanza, il turismo presenta due modelli di sviluppo che si vanno rapidamente divaricando, con conseguenze importanti sia sul piano economico, che sull’assetto generale delle città coinvolte.
Vediamo meglio, ma non prima di fare una digressione importante. Il turismo, nel senso stretto statistico, è una realtà relativamente piccola nell’economia generale, perché nella contabilità nazionale sono computati solo i consumi turistici diretti: alberghi, ristorazione e agenzie di viaggio, ma le sue conseguenze economiche sono più grandi perché, una volta in vacanza o in viaggio, l’ospite spende per una serie di beni e servizi molto più ampia di quella diretta: per i trasporti, per acquistare vari tipi di prestazioni, nello shopping e così via, coinvolgendo perciò buona parte dell’economia locale. Questo insieme di spese è però conteggiato a parte nella contabilità nazionale, ovvero nelle rispettive categorie d’appartenenza.
Gli effetti espansivi del turismo sono perciò notevoli e uno dei metodi migliori per stimarlo è il calcolo del moltiplicatore keynesiano, vale a dire in quale proporzione un euro speso in un settore dell’economia crea ricchezza anche nel resto degli altri settori. In buona sostanza, quali effetti abbia sull’intera collettività. Qui vediamo la prima differenza tra chi è ospite negli alberghi e chi nelle case in affitto: nel primo caso il moltiplicatore vale 1,90, perciò per un euro speso nell’industria dell’ospitalità produce negli altri settori una ricchezza ulteriore di 0,90; nel caso degli affitti brevi il moltiplicatore si ferma a 0,76.
Nel report di Sociometrica l’impatto economico è calcolato non solo sulla base delle statistiche delle presenze turistiche ufficiali ma, per avere un quadro esaustivo dell’entità complessiva del fenomeno turistico, sono stimate anche le presenze turistiche non registrate, solitamente distribuite attraverso le piattaforme digitali. Una volta acquisito l’ordine di grandezza anche di questa parte del mercato, è stato valutato il complessivo impatto economico delle due componenti della domanda.
Il risultato più importante, e per certi versi clamoroso, è la grande differenza nella creazione di ricchezza tra le due forme di soggiorno, una volta che gli effetti moltiplicati differenti si siano dispiegati nelle economie locali: le presenze non registrate (cioè, non presenti nelle statistiche ufficiali) rappresentano il 23,6 per cento dei flussi turistici, ma rappresentano solo l’11,9 per cento della ricchezza prodotta. La differenza è molto rilevante, soprattutto sul piano dell’occupazione: il valore economico generato dalle presenze non registrate finanzia 137mila posti di lavoro, mentre l’economia fondata sulle presenze alberghiere riesce a finanziare oltre un milione di occupati.
La distribuzione proporzionale tra presenze ufficiali e presenze non registrate non è omogenea nel territorio nazionale, perché si segnalano enormi differenze tra destinazioni che arrivano ad avere quasi il 70 per cento delle presenze nella parte non registrata e altre dove restano sotto al 10 per cento. I due modelli, al di là della registrazione o meno delle presenze – come visto – hanno conseguenze molto diverse sulla produzione di ricchezza.
D’altro canto, quando il fenomeno turistico coinvolge gli alberghi, si creano e sviluppano imprese che hanno bisogno di una certa complessità organizzativa, e anche la necessità e l’opportunità di utilizzare più figure professionali, perché offrono un ampio ventaglio di servizi e producono, di conseguenza, una maggiore occupazione; più servizi e una maggiore loro varietà significa perciò coinvolgere molti altri settori dell’economia. Gli affitti brevi alimentano soprattutto la rendita immobiliare, ma non creano molta occupazione, anche perché si tratta di attività estremamente semplici, spesso automatizzate, in cui il fattore umano, cioè il servizio, che pur sempre è il cuore dell’ospitalità, è minimo o assente.
C’è poi un altro aspetto da considerare: i circuiti alberghieri hanno una storia consolidata; una classificazione che, sebbene non sempre omogenea, comunque garantisce il riconoscimento degli standard internazionali dell’ospitalità; hanno brand ampiamente affermati e riconosciuti dal mercato. Avviene così che le maggiori destinazioni balneari del nord abbiano una quota-parte di turisti stranieri molto elevata (Veneto, Lazio, Lombardia e Bolzano sono sopra il 60 per cento), mentre nelle destinazioni del sud la quota degli stranieri è molto bassa (ad es. Puglia, Calabria, Basilicata, Abruzzo e Molise sono sotto il 30 per cento).
Le conclusioni del Report ci portano direttamente al centro delle vicende turistiche, cioè alla necessità che in questo ambito così rilevante per l’economia nazionale (e vitale per centinaia di comuni), si esca dalla insostenibile percezione di leggerezza, per cui non ci sarebbe nessuna necessità di applicarvi un qualche pensiero su come si possano migliorare le sue performance, sebbene già molto consistenti; su come accorciare le disparità che si manifestano nel Paese che, se colmate, potrebbero farci riconquistare la leadership globale; su come accrescere la competitività generale del nostro sistema ospitale, oggi molto differenziata. Risposte che nessun calcolo delle presenze turistiche, per di più parziali e non molto rappresentative, e nessun esercizio previsionale (che non si sa perché sembra essere la maggiore necessità conoscitiva del sistema) possono fornire. Il turismo merita (e rivendica) l’attenzione che il suo impatto sull’economia dimostra.