All Eyes On UsLa notte del draft che ha portato LeBron James, Dwyane Wade e Carmelo Anthony in Nba

Nella sua autobiografia “Dove non c’è promessa del domani” (66th&2nd), l’ex stella dei Nuggets, dei Knicks e dei Lakers racconta come ha vissuto il giorno in cui è diventato un professionista, con le attenzioni del mondo su di sé e gli altri futuri campioni

AP/Lapresse

Notte del draft 2003: ovunque, le luci dei flash e il rumore delle macchine fotografiche in azione. La stanza continuava a riempirsi. Mi spostai in un’altra, seguito dalla folla mentre sempre più persone entravano nell’impianto. Sembravano tutti nervosi ma felici. Molti di noi stavano sperimentando un’improvvisa mobilità sociale, sfuggendo a un’esistenza di povertà nell’arco di una sola notte. «Carmelo, di qua, di qua! Guarda da questa parte, da questa parte!» gridò un gruppo di fotografi. Tutti i non giocatori presenti, con in mano microfoni e telecamere, non facevano che ripetere: «Questa è la tua grande notte!».

Tutti i commentatori di Espn, gli stessi che guardavo in televisione da non so quanto tempo, erano lì, in carne e ossa. Puntavano i microfoni verso me, LeBron James, Dwyane Wade e verso tutte le altre giovani dinoccolate promesse, nei nostri completi su misura. Come avevo fatto ad arrivare fin lì? «Cosa pensi che succederà stasera?» mi domandavano gli intervistatori. «Dove pensi di finire? Sei eccitato?». Se sono eccitato? Sono un ragazzo nero che arriva dai bassifondi. Me l’ero dovuta cavare in alcuni dei quartieri di case popolari più difficili d’America. E quella sera ero lì, potenzialmente tra le prime cinque, tre, o forse perfino due scelte del draft Nba. E mi chiedete se sono eccitato? Avrei solo desiderato che telecamere, reporter e commentatori andassero via un minuto per darmi la possibilità di ricompormi.

Era come se il cuore mi stesse uscendo dalla camicia. Ero eccitato, ma anche in ansia e curioso di come sarebbe stata la mia nuova vita. Da che mi ricordavo, mia mamma aveva sempre avuto due lavori, mentre d’ora in poi sarei stato in grado di prendermi cura di lei, di comprarle una casa, una pelliccia di visone – qualunque cosa desiderasse – ed era elettrizzante. Al tempo stesso provavo sentimenti contrastanti, perché la mia vita era stata un susseguirsi di delusioni, epiloghi tristi e traumi. Sapevo di avere un agente, e di aver guidato i Syracuse Orange al loro primo titolo Ncaa. Sapevo di aver conquistato il premio come miglior giocatore delle Final Four.

Ero al draft perché ero stato invitato e perché secondo i pronostici sarei stato chiamato tra i primi. Indossavo un completo su misura. Eppure, niente di tutto ciò garantiva che mi avrebbero scelto. Probabilmente sarei stato ancora più nervoso se lì con me non ci fossero stati i miei due fratelli maggiori, Jus e Wolf, che mi avevano sempre sostenuto. A prescindere da ciò che sarebbe accaduto quella notte, sapevo che se ne avessi avuto bisogno ci sarebbero stati. Diedi loro una rapida occhiata, guardai i loro piedi. Calzavano entrambi scarpe con la suola rigida, scivolosa, e probabilmente si sentivano a disagio quanto me, perché non indossavamo mai completi del genere. Scommetto che non lo faceva la maggior parte degli atleti presenti a quell’evento, nonostante fossero i veri protagonisti della serata.

C’era mia mamma – la mia àncora, la donna più forte che conosco – insieme alla mia fidanzata e a Michelle, mia sorella maggiore. Quando ero preda dell’ansia, il loro supporto e il loro amore mi rasserenavano. Se fossi riuscito a regalare loro tutto ciò che si meritavano, il mio viaggio fin lì avrebbe avuto un senso. Se fossi stato scelto da una squadra di Marte e mamma e Michelle avessero accettato di seguirmi, sarei stato felice di andarci. Perché sapevo che sarebbe andato tutto bene. In quella stanza c’erano tante altre famiglie e immaginavo che l’amore che provavo per la mia rispecchiasse quello che gli altri atleti provavano per le loro. Probabilmente avevano atteso tutta la vita per celebrare quel momento tutti assieme. Mi chiedevo se si sentivano a loro agio o se anche loro erano perseguitati da vecchie ferite.

La maggior parte dei giocatori di basket sogna quella notte da sempre – scegliendo i vestiti, memorizzando tutti i discorsi di ringraziamento, sperando e pregando di non dimenticare nessuno. È probabile che da bambini i miei colleghi lì presenti avessero fatto le prove per quel momento indossando le giacche e i berretti della loro squadra del cuore, sfilando sul tappeto del salotto e fingendo di stringere la mano a David Stern. Avevano già preparato tutto, perché il loro obiettivo era l’Nba, e lo avevano raggiunto. Sogno realizzato. Le luci continuavano a lampeggiare, la serata procedeva. LeBron era eccitato, Wade era eccitato. Anch’io ero eccitato per loro, così come tutti i presenti al Garden che quella notte stavano vivendo il loro sogno. E anche loro probabilmente erano eccitati per me, pensando che anch’io avessi realizzato il mio.

Ma il fatto strano è che l’Nba non era il mio sogno. Io non sono come la maggior parte dei giocatori di basket. Non sono mai stato ossessionato da quel giorno, dal completo che avrei indossato, o dal momento della stretta di mano a David Stern. Non fraintendetemi, ero più che grato per tutto ciò che stava avvenendo. Ma finché non si concretizzò davvero, molto semplicemente non ero in grado di vederlo. Forse perché non volevo portarmi iella o perché lo ritenevo irrealizzabile, o forse perché nel mio caso tutta la parabola che mi aveva condotto a diventare un giocatore di vertice era stata troppo veloce. So soltanto che non ci avevo mai pensato. Non avevo mai permesso a me stesso di credere a un sogno che poteva essermi strappato via da un momento all’altro. Quindi, per me la vera domanda non era se fossi eccitato o meno. La vera domanda era: come avevo fatto io – un ragazzo a cui avevano distrutto così tante speranze e aspettative, e così tanti sogni – ad arrivare fino a lì?