Confronto pluraleL’identità del Partito democratico e il rinnovato percorso riformista

Secondo la vicepresidente del Parlamento europeo, il Pd ha il dovere di non rinnegare quanto di buono fatto in questi anni, ma allo stesso tempo si deve immaginare un nuovo orizzonte di riforme più ancorato alla contemporaneità

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In questi giorni si è sviluppato su alcuni quotidiani un dibattito interessante sulle ragioni e il futuro del riformismo dentro il Partito Democratico. Ieri in lungo articolo La Repubblica Stefano Ceccanti, Enrico Morando e Giorgio Tonini hanno sollevato alcuni nodi che meritano di essere trattati per la parte non marginale di paese che queste questioni rappresentano. Parte del paese e del nostro elettorato che non classificherei minoritaria solo in ragione degli esiti congressuali del Partito Democratico. 

Ho avuto modo, a più riprese, di sostenere la tesi che il terreno delle riforme promosso dalla destra, in maniera confusa, con accenti populisti e senza alcuna tensione reale alla condivisione, dovesse essere il terreno sul quale svelare l’inconsistenza del disegno riformatore del governo e della maggioranza. Ed è essenzialmente il terreno sul quale ridefinire un solido impianto culturale della sinistra. Non sono così convinta che, percorsa questa strada, le differenze che gli autori sostengono esistano nel Partito Democratico, e tra riformisti e nuovo gruppo dirigente, siano così nette. 

È ovviamente presto per affermarlo, ma una rappresentazione delle diverse energie che animano il Partito attraversata dalla separazione tra antagonismo identitario e riformismo rischia di essere quantomeno inesatta e di non aiutarci a fare conti con la realtà. Realtà che ci dovrebbe indurre a una più attenta analisi della situazione italiana degli ultimi dieci anni. Non a caso parto da dieci anni fa, quasi esattamente dieci anni fa, dalla ri-elezione di Giorgio Napolitano alla residenza della Repubblica. Nel suo discorso di insediamento ebbe ad affermare, tra gli applausi generali, che i continui richiami alla necessità di riforme delle istituzioni, del sistema politico e dell’economia erano caduti nel vuoto e rilevava quanta parte della crisi italiana risiedesse in quella caduta. 

Da quel tempo, bisogna ammettere senza reticenze, la nostra parte politica ha assunto rilevanti funzioni di governo senza che ciò cambiasse sostanzialmente lo stato delle cose. Tentativi vi sono stati, fino all’indizione di un referendum, ma gli esiti popolari sono noti. Nel frattempo, ci troviamo di fronte a un paese che ha dovuto fare i conti con crisi di non poco conto, dalla pandemia all’aggressione russa in Ucraina, che ha distolto l’attenzione generale da questi temi, inducendo oggettivamente a modificarne le priorità. Anche per una certa miopia delle classi dirigenti che sembrano stentare a cogliere opportunità di cambiamento dalle crisi, così come vecchio adagio prescrive. 

A questo si aggiunga una certa timidezza nella corretta ed esaustiva interpretazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, non solo come mero strumento finanziario, ma come occasione per una più complessiva riforma del paese, di cui siamo stati anche noi e le nostre recenti esperienze di governo, vittime. Per queste ragioni credo che la ricerca di un nuovo e più adeguato e contemporaneo profilo riformista sia da rinnovare, senza che ciò implichi l’oblio, o peggio, il rinnegamento delle nostre passate esperienze. Su questo ho già avuto modo, senza fraintendimenti, di rivendicare le cose giuste quanto gli errori dei 15 anni di esperienza del Partito Democratico. Ma bisogna ritornare al qui e ora, a quella ricerca di cui ho fiducia possa essere in qualche modo condivisa pur nella rappresentanza, che dovrà essere più compiuta, del pluralismo. 

C’è un aspetto, inoltre, che mi rende ottimista: l’avvicinarsi delle elezioni europee e le riforme del funzionamento dell’Unione che in quella occasione dovremo proporre all’elettorato europeo. Politica estera e di difesa, ruolo del Parlamento, legge elettorale transnazionale, diritto di veto: questo non è da intendersi come terreno aggiuntivo rispetto a quello della destra, ma come prioritario, perché uno dei discrimini più sostanziali di differenza con l’esperienza di Governo risiederà appunto nel modo in cui intendiamo il processo di integrazione e soprattutto perché le istituzioni europee rappresentano ormai l’architettura di decisioni pubbliche più solida in possesso dei cittadini. Solida, ma che deve essere attraversata da profondi cambiamenti per essere considerata anche vicina. 

Credo che la sollecitazione di un confronto su queste materie nazionali ed europee sia da cogliere nel più breve tempo possibile e altrettanto fortemente credo che solo quel confronto possa aiutare a ridurre le distanze, a rappresentare il pluralismo e a continuare la ricerca che la buona prassi riformista richiede.

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