E così la finale di Europa League tra Juventus e Roma non si giocherà. E dove, dove non si giocherà? (Sento questa voce porre questa domanda, devo rispondere). Alla Puskas Arena di Budapest, in Ungheria, è là che non si giocherà mercoledì 31 maggio 2023 alle ore 21. Perché a quell’ora in quel giorno del mese di quell’anno alla Puskas Arena di Budapest in Ungheria si giocherà un’altra partita (il bello del tempo verbale al futuro è che si può leggere al passato). Ho preso un impegno col direttore: scrivere della partita che non si giocherà. Devo quindi parlare del tempo e degli universi. Siamo consapevoli. Era un altro tempo il tempo in cui le cose che non accadevano non accadevano. Oggi siamo consapevoli, non è più quel tempo. Quel che non accade è così che accade: non accade ma in maniera rilevante. Non è che qualcosa non accade, accade ma lontano, molto lontano, lontanissimo da noi nello spazio e nel tempo (spazio e tempo: che termini ormai insulsi; spazio-tempo col trattino è abominevole come costi-benefici).
Secondo voi (voi chi?) basta dire che una cosa non avviene e la cosa finisce là? (Là dove e là quando?). Questo, una volta. Una volta era così. Non ora. Da quanto? Da un po’. Le cose cambiano, la mente è quantica, l’intelligenza è artificiale, il rame è lento, niente è più com’era eccetera eccetera. Era così un tempo. Ancora questo termine (è un termine?): tempo, questo termine stantio e ormai fuori corso. Ora questo tempo non è più quel tempo (comprendo il disorientamento) e non è nemmeno un altro tempo (sentimentalismi addio), questo tempo non è più nostro (rendendoci solo ora conto che non lo è mai stato, umanamente parlando).
Ecco, per esempio, la partita non è che non avvenga, no, è che avviene che non avviene, non quando e non dove, negli eterni laggiù (anche eterei, forse?). Voglio dire, e non lo dico io ma gente con le palle nel cervello, voglio dire che dobbiamo intenderci sul dove e sul quando: dove avviene che non avviene quando non è quando. Il posto esiste, più che un posto è un luogo, più che un luogo è un ambito, non uno spazio (ah, questo obsoleto interstizio), anzi a sentirsi definire spazio questa estensione recalcitra e si chiude in sé, nella sua astrazione (abbiamo un futuro pieno di sinonimi dai significati più scontrosi di quelli di oggi e sempre più tendenti a innervosirsi); esiste il lasso temporale, che però non è fatto di tempo è fatto di gelatina elastica dal buon odore che te la mangeresti ma non puoi perché non è commestibile, è solo una trovata promozionale (di che?). E non posso concludere con “sto scherzando” (come in certi film irresponsabili). È tutto vero (se vero significasse qualcosa).
Cosa voglio dire? (E non lo dico io). Voglio dire (ammesso che io voglia dire qualcosa): quella partita. Quella partita è in corso. Ma devo deludervi: non solo quella. Ogni partita è in corso. In questo momento? Me lo stai chiedendo? (Chi ha parlato?). Sì, in questo momento. Dove siamo? Nella nostra trequarti. Solo io avverto tutto questo? Partiamo dal basso. Chi è che dice che non abbiamo un gioco? (Chi ha parlato?). E chi è che dice che non sia un bel gioco? Un po’ tutti mi è parso, un po’ tutti. È questo oggi il problema: un po’ tutti. Dovrei essere più preciso, più circostanziato? E perché?
Il nostro gioco è il gioco delle onde respingenti e attraenti sulle quali sussulta e saltella il chiaro di luna di un pallone, è il gioco delle stelle espansive e ritrose, è il bosco di notte nel quale rotola la palla balzando rintuzzata da stinchi arborei (ho visioni notturne da serata di coppa). Ostia antica, mare e pineta, Roma marina. Sì, non è facile entrare tra le nostre linee, tra i nostri filari. No, non è facile. Una foresta che si muove da un castello all’altro. Sì, non da un castello all’altro (troppo letterario): dalla nostra area di rigore al centrocampo, poi sulla battigia della tre quarti d’attacco, e lì tra i granchi avversari che ci contrastano sbiechi, tra i granchi chelati perdiamo la palla (è un espediente, una nostra finta eseguita dall’altra squadra). Sì, lo snervante, maniacale, ottuso possesso non è cosa che ci appassioni, preferiamo uno scattante colpo di genio, il capriccio improvviso, lo scarabocchio anche brusco, istantaneo, che diventa un ghirigoro, un intreccio bizzarro che si conclude con il colpo di genio della palla in rete.
Certe nostre segnature sono esposte nei migliori circoli museali del biliardo. Ma anche e con destrezza pratichiamo l’errore, mandiamo spesso palle in fumo e non in gol, perché siamo galanti innamorati del ritardo e quindi indugiamo facendo le fusa nei dintorni della porta altrui che ci attrae coi suoi piedritti e l’architrave e qui noi siamo campioni di toccate, campioni d’Europa (quindi del mondo) di legni colpiti tra pali e traverse, che è un modo pierrottesco di rinunciare alla brutalità del gol (elevando sfortuna e patetismo a forma d’arte). Oppure sfioriamo, passiamo vicino, siamo, insomma, carezzevoli. Come giochiamo, così scrivo: non una parola, non solo una, ma più d’una parola di troppo. Pressati arretriamo respinti (ma come ce piace facce attacca’).
È anche arte coreografica il calcio, è lotta (ovviamente) della luce con l’ombra e viceversa come nel miglior cinema espressionista, è Gigino Gigetto, è attacco portato e difesa portante tutt’assieme, è quel ritorno nostalgico al nostro bastione lunare, la lunetta (pierrottesca anch’essa, questa porzione di luna) davanti all’area grande (si sa che il centro di quell’accenno di cerchio è il dischetto del rigore, si sa quanto calcistica sia la geometria?) e lì eseguiamo le nostre figurazioni tribali, ancestrali direi, a difesa del nostro fuoco giallo e rosso, le danze respingenti, il bosco ambulante che si espande e si contrae, anch’esso rosso pompeiano e giallo oro (aceri, gli aceri hanno foglie di questi colori, niente di strano, è passione naturale; l’acero, quest’albero viario romano), un bosco mobile sulle sabbie del sottobosco (c’è sabbia sotto l’erba dei campi di calcio, si sa questa cosa?).
L’avversario avanza e noi lo facciamo avanzare (ma come ci piace farci attaccare) sulle sabbie mobili, che sono il rischio minimo perché sui litorali dell’area s’aprono buche da giochi infantili, che non sono buche però, sono fauci (ovviamente aperte e zannute, poi chiuse con uno scatto da tagliola). Era così che gonfiavamo le nostre biciclette senza freni nell’adolescenza appunto sfrenata, con la pompa a stantuffo: attirare e spingere fuori, attrarre e respingere. Così gonfiavamo la camera d’aria, con la nostra aria boriosa, così ottenevamo il risultato.
La partita è in corso e io prendo a pretesto questa finale storica, Roma-Juventus, la cui essenza è il non essere, il cui apparente non avvenire è il suo avvenire (quel che non appare è così che appare: che non appare) e mi chiedo dov’è che non avviene. Dove non avviene quel che non avviene? Non avvenire è un atto, questo è il punto. Usando il termine punto non vorrei dare indizi, nemmeno a me (tremo al pensiero degli ulteriori sviluppi dello scrivere). «Non avvenire è un atto: questo è il punto», questa frase ha meritato i gradi, le virgolette, o le spalline, insomma diventa araldica. Non io ma un prossimo Nobel per la Fisica svilupperà l’assunto, io torno in campo, come dire a giocare. Devo dettare il passaggio.
«Questa partita è una finale», questa frase va presa in accezione totalizzante (anch’essa dovrebbe essere espansa da un Nobel per l’Escatologia). Com’è che tutto ciò che non accade mi pare più compiuto di quel che accade? (Com’è che la scrittura mi pare un atto infinito?).
Non c’è risposta (menomale, non vorrei dilungarmi) se non questa: ciò che non accade è digestivo, rende più digeribile quel che accade, e noi, confessiamolo, siamo così umanamente intestinali, amiamo soprattutto digerire, e tutto ciò che non accade ci percorre senza peso, passa attraverso di noi in maniera presente: tutto ciò che non accade non accade che al presente (nel senso che: è nel presente che non accade), non so come dire (nessuno lo sa), in un presente istantaneo, senza perdere tempo, senza fare storie e alla massima velocità, quella di grado statico ossia quando (ma non esiste un quando) tutto pare stia fermo perché stava qua quel tutto e di nuovo sta qua tutto quanto ma in mezzo c’è stata una velocità tale attraverso universi che i due qui (qui e qui: il qui di partenza e il qui di arrivo) sono un solo qui (qua). Ti rendi conto? (Chi?).
Siamo alla fusione di due istanti in uno. E ognuno dei due contiene tutti gli istanti, tutti. È così che succede: la sincronia di due istanti è già sincronia di tutto. Da non crederci. E con tutto si intende davvero tutto, niente escluso (e su “niente escluso” dovremmo aprire enciclopedie tutte da scrivere, lasciamo perdere), tutto, gli eventi apparentemente avvenuti e gli apparentemente non avvenuti eventi.
Allora è chiaro, no? È l’universo, sono gli universi, sono loro che giocano la partita, che sta per tutte le partite, la finale che sta per tutte le finali (la fine?) dei mondi. E tutto accade nello stesso momento. Quale? Questo. Lo leggi oggi, lo leggi domani, lo leggi tra decenni, secoli, il passo recita sempre: e tutto accade nello stesso momento. Quale? Questo.
È che noi abbiamo solo visioni parziali, visioni di una sola parola mi verrebbe da dire, vogliamo dare un nome, ecco, nominare è il nostro vizio, privilegiamo il punto di vista, il nostro (abbiamo la mania dei privilegi). Non possiamo permetterci il contrario ossia l’onnivisione. Per questo creiamo deità che vedono tutte le partite in contemporanea, tutte le partite di tutte le competizioni di tutte le serie, di tutte le giornate di tutti i campionati, nazionali, internazionali, mondiali, e coppe e tornei e amichevoli, tifando per tutte le squadre, tutte le squadre avversando. E tutto il tutto lo vedono in un solo colpo d’occhio. Inebriandosi e avvelenandosi con un sorso solo. E non pagando nessun abbonamento.
Perché noi esistiamo, noi umanità? Per portare – diversamente dalle pietre, dalle verdure e dalle bestiole – sulla terra un po’ di passione ossia intransigenza, intolleranza, faziosità, tifo insomma, il nostro più schietto e scientifico tentativo di comprendere il cosmo sconfinato, perché il grande slancio del tifare si proietta nell’illimitato: è quanto più somiglia all’infinito e alle sue brame. Ma l’infinito ha l’infinito in esponente, e noi non possiamo vincere il campionato cosmico, che non sappiamo nemmeno dove si gioca, non possiamo nemmeno arrivarci con le simulazioni del pensiero nell’area di rigore avversaria, no, non possiamo arrivarci.
Se ci arrivassimo tutta questa totalità (ne siamo sicuri e non sappiamo perché) si ridurrebbe a uno smascherato mucchietto di cenere, ma noi non arriviamo a comprendere il mastodontico bluff dell’esistente. C’è una macchinazione dietro, ne siamo sicuri, una attività occulta agli alti livelli, come no, ma non sappiamo che farci, non sappiamo cosa fare, e allora facciamo il tifo, abbiamo una squadra del cuore per avere un cuore. Per essere parziali, ecco perché ci appassioniamo. Tutto il resto è arbitraggio, è fischietto.
Tu lo sai cosa si intende con “partita”? Si intende una quantità, e si intende la serie delle azioni necessarie perché la quantità si esprima, comprese le libere variazioni (la solita musica). Ci siamo? Che voglio dire? Perché una palla entri (o non entri) in rete c’è bisogno di un campo di gioco. Il campo di gioco è l’universo, questo e gli altri, circostanti e ulteriori.
La Curva Sud ai confini del cosmo. E c’è bisogno dei tempi di gioco che sono una generosità del tempo infinito ossia dell’attimo (fermare l’attimo è infinitamente impossibile). C’è bisogno del calcio d’inizio, del grande tocco primordiale, c’è bisogno di tutto. È questo che vogliamo? Tutto? Non si può.
Una coppa, ecco, sì. La Coppa a Roma, chi ha già scritto questo? Henry James, Alfred Hayes? Una notte a Budapest. Cos’è? Il titolo di un libro di Prokosch nell’edizione Libri del Pavone? O di Dekobra, che ha scritto tutti i libri senza che la carne mai si stancasse. O di Remarque meglio ancora. Portiamo a casa questa Coppa (dove l’ho letto, negli annali di chi?). Qui devo fermarmi, ho preso la curvatura, la piega, la fettuccia, la tangenziale di Moebius, ecco: il nastro senza fine, devo darci un taglio, devo tagliare il nastro, sto inaugurando qualcosa, non so cosa. (Cos’è che non finisce mai? Sono incerto tra l’infinito e lo scrivere). Basta chiacchiere, basta parole: è per questo che si gioca la partita. Ecco perché mi piace giocarla.