Antimafia, la serieQualche episodica assoluzione non cancellerà la cultura (anti)mafiosa della giurisdizione

La Cassazione ha stabilito che non ci fu alcuna trattativa con la mafia, ma permarrà a lungo l’assurda idea di alcuni pm secondo cui l’azione giudiziaria debba rimettere in riga la società, imponendo una disciplina svincolata dallo Stato di diritto

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Un’altra sentenza che chiude l’ennesima stagione dell’eterna serie antimafia reca purtroppo due tipi di assoluzione: quella che tardivamente libera gli imputati da un decennio di persecuzione, e quella di cui è destinataria la cultura che simili processi continua a produrre. È chiaro che non in quel provvedimento di giustizia, né in qualsiasi altro della stessa natura, può trovare spazio la necessaria requisitoria contro l’idea e la pratica della giurisdizione ormai archeologicamente impiantate nella nostra struttura civile, e cioè l’idea che l’azione giudiziaria sia rivolta a rimettere in riga la società e la pratica che ne fa attuazione con le indagini, con gli arresti, con i processi, con le sentenze “antimafia”.

Il procuratore della Repubblica che si proclama «dalla parte della gente» quando il giudice respinge le richieste di pena formulate dall’accusa, mentre nessuno gli ricorda che sta ripetendo il canone del linciaggio opposto alle incertezze della giustizia perdonista; il campione della magistratura televisiva che rinfaccia «alla politica» di non fare la pulizia che ci vuole e rivendica di «far rispettare la legge», mentre nessuno gli fa osservare che al rispetto della legge è comandato il poliziotto, il carabiniere, il vigile urbano, non il magistrato che vi è solo subordinato e deve solo applicarla; l’inquisitore che tiene comizio in aula di tribunale reclamando l’emissione di una sentenza che «bonifichi» una regione d’Italia, mentre nessuno fa mostra neppure di avvertire a quale grado di sproposito si ponga una giustizia che procede per “bonifiche”; e l’altro, il più celebre, che in faccia alle telecamere e ai microfoni dei giornalisti adunati per la promotion del rastrellamento, e tra due ali di carabinieri, spiega che quello è il compimento della rivoluzione che egli sogna da quando si è insediato, smontare e rimontare come un giocattolo il pezzo di Paese renitente all’ordine antimafia. 

Tutto questo persevera in purezza negli intendimenti della giustizia che non tratta con la mafia solo nel senso che a essa si giustappone riproducendone il comportamento fondamentale, e cioè la pretesa di riconduzione della società a un altro tipo di “ordine”, una disciplina del tutto svincolata dallo Stato di diritto e che non è migliore, più civile, più nobile e meno pericolosa solo perché pecca di qualche brutalità e ostenta l’uniforme di Stato.

Trent’anni e più di letteratura, la poca e osteggiata che pure c’è stata, sulle “storture” dell’antimafia, sugli “errori” commessi, come si dice, “in nome” dell’antimafia, hanno trascurato che la stortura è nella stessa antimafia quando essa pretende di farsi giurisdizione: e che quelli di cui essa si rende responsabile non sono errori, ma fisiologiche proprietà di una giurisdizione in tal modo corrotta.

Non avremo nemmeno il sospetto di un sistema di diritto se non quando sarà sconfitta la cultura antimafia della giurisdizione, se non quando sarà chiaro che è nel proprio essere “anti” alcunché il carattere inaccettabile della giurisdizione. Fino ad allora, potremo solo augurarci qualche episodica assoluzione dopo anni di massacro dei colpevoli che la fanno franca.

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