Acqua e terra Trovare il mare a Olgiate Olona

Nella cucina di Alessandro Menoncin, chef giovane ma con importanti esperienze internazionali alle spalle, il pesce è valorizzato in tutte le sue parti e sono gli elementi vegetali a caratterizzare territorialmente i piatti

Arrivare in centro a Olgiate Olona e trovare il ristorante Acqua sono due azioni tutto sommato semplici: per la prima basta un buon navigatore, con la seconda vi basterà aguzzare lo sguardo, quando incontrerete una struttura che ricorda una nave sospesa che mostra l’imponente carena pronta al varo, avrete raggiunto la vostra meta.
La volontà è quella di creare qualcosa di nuovo e di elegante, in quel settore della ristorazione, la cucina di pesce, in cui il classico raccoglie tanti consensi anche non lontano da qui dove Ma.Ri.Na, avamposto di piatti ittici, ha un pubblico affezionato e il riconoscimento di una stella Michelin.
La forma navale allungata fuori è animata da panelli lamellari che la ricoprono e rendono ancora più di effetto visivo la struttura, come onde che si infrangono su un vascello disteso nel centro di Olgiate da poppa a prua.

Immaginare la presenza del mare a Olgiate Olona richiede un certo sforzo di immaginazione, reso meno difficile quando diversi elementi aiutano la fantasia e rendono concreta e reale un’esperienza di cucina di pesce lontano dal mare. All’interno nella sala principale ellittica luci e arredi sono fattori che restituiscono la sensazione di un luogo in cui fare un’esperienza come una somma di elementi sensoriali, gusto in primis, anche con l’ausilio di una teca bioclimatica con piante tropicali che nell’arco di quattro ore riproduce le condizioni di luce delle 24 ore.
Alla guida del locale Davide Possoni, figlio di Pino, storico patron del Ma.Ri.Na, Andrea Marcella business man istrionico, entrambi con una forte passione per viaggi e vino, e lo chef Alessandro Menoncin.

L’investimento sul luogo, aperto un anno e mezzo fa, è importante (anche un piccolo dehors con getti d’acqua, tre suites sopra la sala ristorante e una zona bar con vista Monte Rosa all’orizzonte) e già ci parla dello spirito del ristorante: un’identità legata a uno spazio fisico e a un’insegna senza nessun divismo o personalismo a livello di proprietà, di sala o persino di cucina, ma che risulta dalla sommatoria di queste professionalità che come tasselli costituiscono il mosaico di Acqua.

La contemporaneità della cucina è coerente col design della struttura, giovani anche proprietà e chef, una contemporaneità che nulla tradisce del passato e anzi cita esplicitamente i classici senza volerli ripetere pedissequamente. Se questo è un atteggiamento assai comune nell’alta cucina, non sempre riuscito, con quella di pesce diventa un terreno scivoloso soprattutto in paesi mediterranei come il nostro dove la “sacralità” di una materia prima come il pesce poco tollera discostamenti dal classico.
Da una prima panoramica dei piatti di Acqua emerge un’intelligente riflessione non solo sul corretto trattamento della materia prima, ma anche su ciò che la accompagna e in particolare sul vegetale. Come? Grazie a tecnica, tecnologia ed estro, citando spesso la tradizione gastronomica italiana (quella alta di Marchesi e quella regionale patrimonio di tutti), senza dimenticare anche il solco tracciato dai francesi nelle brigate di tutto il mondo (salse comme il faut, anche col pesce? Sì, certo). Il vegetale presente è uno solo per ogni piatto ma viene declinato in preparazioni al plurale. Lo chef Alessandro Menoncin oltre all’imprescindibile dogma della stagionalità (per una triplice motivazione legata al gusto, alla convenienza economica e per ultimo ma non meno importante alla sostenibilità) dà prova di conoscenza del prodotto. Una conoscenza che si rivela nella capacità di scomporre il vegetale, trasformarne le diverse parti, e, infine, quando tutto sembra terminato prima che lo scarto finisca nella spazzatura dare un colpo di coda anche su quello, unendo creatività ed estetica alla filosofia dello spreco zero

La scansione della carta rispecchia la divisione classica quando si tratta di materia prima ittica; oltre a primi, secondi e dessert ci sono gli antipasti suddivisi in caldi e freddi. Questi ultimi solitamente trampolino di lancio per il sapore e la freschezza della materia prima di qualità. L’elenco non è lungo, e questo è un bene, e la possibilità di farsi guidare in un percorso degustazione è una buona idea.
Per il resto lo stile sembra quello di una creatività ragionata all’insegna del less is more, dove tecnica e materia prima hanno voce in capitolo senza mascheramenti di prodotti esotici o abbinamenti arditi che in alcuni casi potrebbero essere solo fumo negli occhi.

Alessandro Menoncin è giovane ma già con un interessante curriculum di esperienze anche internazionali, e come basi della formazione solide fondamenta made in Alma. Spostandosi di poco dalla scuola di cucina ha avuto una significativa esperienza all’Antica Corte Pallavicina, alias Spigaroli. Poi l’allontanamento dalla campagna e la voglia di migliorare il proprio inglese, ci racconta, l’hanno portato a Londra. Gordon Ramsay prima, per continuare poi con l’apertura del Bulgari Hotel con Ducasse e approdare infine da Hélène Darroze al Connaught Hotel per tre anni. Dopo questo notevole cursus honorum, la motivazione del ritorno in Italia è perfettamente aderente al nuovo volto delle professioni della ristorazione: non più uno stakanovismo cieco e forsennato, ma un duro e serio impegno che non esclude spazi per coltivare una vita personale completa, è così che la paternità è stata la leva che ha ricondotto Alessandro a casa.
Serio ma non serioso, sembra avere una gentile determinazione e anche una certa capacità di eloquio (forse merito degli studi da oratore del foro intrapresi prima della folgorazione sulla via di Colorno).

Al tavolo prima della spiegazione dei piatti ci tiene a raccontare il concetto della cucina di Acqua per dare un senso ai piatti che seguiranno: una cucina soprattutto di mare, ma non esclusivamente, nella quale la territorializzazione dei piatti avviene con gli elementi vegetali. Ad esempio, con salmone e barbabietola, un piatto che unisce tecnica ed estetica: dopo aver nuotato fino a Olgiate Olona il salmone norvegese viene marinato in un estratto di barbabietola, poi affumicato maison, nel piatto ancora barbabietola a rondelle con una salsa yogurt e rafano (abbinamento che lo chef si porta dall’esperienza anglosassone). Una spirale viola che avvolge il salmone incornicia ed eleva esteticamente e cromaticamente il piatto e, manco a dirlo, è realizzata con gli scarti della barbabietola stessa.

Quello del pesce è un banco di prova sfidante per lo chef e non solo perché lo propone lontano dal mare, ma anche perché, ci confessa, è lontano anche dalla sua pratica di cucina del passato, più orientata verso la carne. Ma la curiosità e la voglia di imparare l’hanno condotto proprio dalla Darroze, nota al Connaught per piatti di pesce dall’homard in giù. Alessandro non rifiuta il classico ma evita di riproporlo tout-court e ce lo spiega in una battuta: il tipico piatto di spaghetti alle vongole forse lo apprezzi meglio in riva al mare.

È giovane come ristorante Acqua ma nell’alternarsi stagionale dei menu presenta già qualche classico, piatti ai quali chef, proprietà e clienti si sono già affezionati, è il caso dello sgombro che ha conquistato anche noi. L’abbinamento vegetale qui è con la carota che, come la barbabietola con il salmone, determina la cromia del piatto. Se quella col pesce è stata una sfida per lo chef, quella con lo sgombro è stata una storia di avversione trasformata in amore: «Se riesco a farmelo piacere, piace a tutti». Prima sotto sale e poi marinato in aceto di riso con alga kombu (secondo la preparazione giapponese Shime Saba) la cuticola sopra la pelle si stacca ma rimane un colorito tale che sembra ancora presente, poi viene appena fiammeggiato. Fin qui la gentile cottura del pesce, la carota si esprime a partire da un aceto di carota alla base del piatto, in cubetti latto-fermentati, e in crema, risultato della lavorazione degli scarti che si creano dall’estratto di carota usato per realizzare l’aceto.

Il risotto ai frutti di mare omaggia un classico della cucina di pesce e al tempo stesso vola alto coi riferimenti gastronomici: l’ispirazione al raviolo aperto di Gualtiero Marchesi è triplice, ci spiega lo chef, visto che il riso viene mantecato con lo zenzero che il Maestro usava nella salsa del raviolo, per la presenza del burro acido per mantecare il riso, altro marchio di fabbrica marchesiano e infine con una polvere di prezzemolo che cita alla lontana quella foglia di prezzemolo imprigionata nella sfoglia della pasta che era diventato quasi il logo del raviolo di Marchesi. Cannolicchi, fasolari, vongole e crema di cozze sono i frutti del mare privati del proprio guscio che arricchiscono un piatto davvero interessante come idea e che nella realizzazione forse merita qualche aggiustamento in sottrazione dello zenzero che è ottimo ma a rischio anestetizzante della delicata componente di mare.

Con il rombo l’accoppiata classica è quella del carciofo, Alessandro rende omaggio alle due tradizioni di cottura del carciofo: romano e alla giudia. Questa seconda preparazione suggerita dalle chips di carciofo nel piatto, con i gambi viene realizzata una crema, in un servizio a parte un carciofo bello come un fiore sbocciato ha l’aspetto di un carciofo alla giudia ma in realtà è alla romana: cotto sottovuoto, aperto in forno e all’interno pangrattato e tutte le trippe e scarti del rombo, menta e prezzemolo per insaporire il ripieno. Non manca una salsa: fondo di cottura del rombo stesso con burro e limone.

Sul finale il pre-dessert è una dolce rivelazione; chissà perché ma succede spesso che ciò che precede il dessert a volte è talmente originale e buono da rubare la scena al dessert stesso. Qui lo stupore piacevole è green e riguarda ancora il vegetale in un sorbetto alla menta nel quale viene usato un estratto di piselli, la stessa acqua dei piselli, ridotta, diventa una glassa che copre il sorbetto assieme a pisellini canditi.

A fine cena il patron Davide Possoni approfondisce meglio la filosofia del locale: davanti a tutto c’è l’ospite e le sue richieste, cercando di capire e soddisfare il gusto di chi si siede a tavola, se più o meno indirizzato verso i crudi, ad esempio, o più o meno verso piatti audaci, rendendo sartoriale anche il discorso del cosiddetto menu degustazione. L’idea non è quella di raggiungere un particolare tipo di pubblico ma di incuriosire trasversalmente e senza preclusioni, per una clientela nei confronti della quale l’attenzione si trasforma in fidelizzazione. La struttura è di sicuro impatto visivo, riporta la scritta Acqua ma non l’indicazione di ristorante, chi viene qua non lo fa per caso, sottolinea Davide, ne ha letto qualcosa o tramite il passaparola. Molti i clienti locali e stanno iniziando ad arrivare anche quelli dal bacino svizzero che rimane ancora affezionato al classico che qui è di fronte, oltre che di famiglia, il Ma.Ri.Na appunto.

Occuparsi di cucina e di locali a tutto tondo e meno di cuochi, è la nuova frontiera della ristorazione e della narrazione di questo mondo? Rispecchia davvero ciò che vogliono i clienti, avere piatti che restituiscano immediato piacere prima ancora di essere il manifesto della biografia dello chef? Bocuse è passato alla storia come colui che ha portato la figura dello chef fuori dalla cucina, rendendolo mediatico, ma è stato anche colui che ironicamente disse che una volta che gli chef sono usciti dalle cucine farli rientrare sarà il vero il problema!

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