EroicoIn gita tra le pergole del paese vigneto alla scoperta del Carema Doc

Un vino ottenuto da uve Nebbiolo in purezza, ma anche un paese tra Piemonte e Valle d’Aosta con un patrimonio paesaggistico e culturale a rischio di estinzione

Carema, foto di Thea Papa

Rosso rubino con riflessi granati, profumo di rosa macerata e sapore vellutato. L’uva a bacca nera più importante del Canavese trova la sua massima espressione nel comune di Carema: qui il nebbiolo viene coltivato su una superficie di circa venti ettari, con terrazzamenti vertiginosi costituiti dall’alternanza di muretti a secco e fertile terra morenica. La struttura a pergola tipica dei vigneti caremesi è chiamata topia, ed è sorretta dai caratteristici pilùn che suggeriscono quella romantica immagine di “templi bacchici” coniata da Renato Ratti, autorevole punto di riferimento per il vino piemontese.

Il grande effetto scenico nasconde un’importante funzione termoregolatrice, in quanto i colonnati di pietra catturano i raggi del sole per poi rilasciarli alla vite durante la notte, attenuando così l’escursione termica. Un vero e proprio vanto architettonico per i vignaioli caremesi, che ancora oggi si impegnano a tramandare quest’arte costruttiva come prova concreta del sacrificio di coltivare una terra difficile. E il gioco vale la candela, perché nei secoli il vino ha costituito una risorsa fondamentale per gli abitanti di Carema: non solo ha rappresentato una delle principali sorgenti di lavoro e di ricchezza ma anche di sostentamento.

La difficoltà di trovare cibo in quantità sufficiente ha fatto sì che il vino rappresentasse un fattore alimentare importante per le popolazioni contadine, sia per l’adattabilità delle colture ai climi più disparati (non banale nel Canavese) che per l’efficacia immediata del suo apporto energetico. Di qui il concetto di “vino come alimento” ancora tanto caro ai viticoltori locali, in cui l’eccesso di ottimismo sulle presunte funzioni salutistiche del vino sopravvive grazie all’elevato grado di appetibilità di questa bevanda, unito al ricordo nostalgico di un’epoca di ristrettezze.

Il duro lavoro richiesto ai caremesi per domare l’anfiteatro morenico che li ospita ha reso il vino fonte di aggregazione e simbolo identificativo di una comunità, che oggi è un patrimonio paesaggistico e culturale a rischio di estinzione. La gestione di appezzamenti che non consentono l’utilizzo di macchinari fa sì che l’eroica viticoltura di montagna sia poco allettante per le giovani generazioni, motivo per cui Slow Food si impegna a tutelare il paesaggio rurale di Carema e a difenderne la biodiversità e gli antichi saperi.

La tradizione ultracentenaria protetta dal Presidio è madre di un vino che nel corso dei secoli ha riscosso meritati riconoscimenti: nel Cinquecento il bottigliere di Papa Paolo III Farnese lo definì «un’ottima e perfetta bevanda da Principi e Signori», e nello stesso secolo il trattato “De Vinis Italiae” menzionò il Carema come “vin d’arrosto” per i Reali di Francia. In tempi più recenti Mario Soldati ne apprezzò il «gusto di sole e di roccia».
Insieme all’Erbaluce di Caluso – altro fiore all’occhiello canavesano – ottenne la Doc nel 1967: il disciplinare attuale prevede almeno l’85% di nebbiolo, con l’obbligo di effettuare le operazioni di vinificazione e di invecchiamento nella zona di produzione o nella frazione di Ivery nel Comune di Pont St. Martin (in Valle d’Aosta) secondo gli usi tradizionali della zona. L’affinamento minimo è di 24 mesi (di cui almeno 12 in legno di rovere o castagno), che diventano 36 mesi (di cui 24 in legno) per la tipologia riserva.
L’iniziativa Slow Food si sposa con l’impegno della Cantina dei Produttori Nebbiolo di Carema: fondata nel 1960, oggi conta oltre cento soci attivi per la salvaguardia e la valorizzazione della cultura enologica locale, incluso il mantenimento del metodo di coltivazione a pergola, dell’ecotipo Picotendro (tipico dell’Alto Canavese e della Valle d’Aosta) e della vinificazione tradizionale.

La ricerca di una maggiore qualità e di disciplinari sempre più esigenti hanno segnato la storia di questo vino, che oggi lascia spazio alla percezione del terroir con sfumature aromatiche proprie e tannini più eleganti, «affidando solo al tempo in bottiglia l’arduo compito di farli evolvere». Di qui il progetto di “zonazione vinicola” (studio e mappatura dell’area di produzione), nato con la volontà di preservare e valorizzare la storia di Carema, ma anche di comprenderne l’andamento e il futuro: negli ultimi dieci anni sono stati ripresi circa 10 ettari di vigne su terrazzamenti non più produttivi, dando nuovo slancio alla ricerca e alla sperimentazione, che uniti agli evidenti cambiamenti climatici inaugurano la nuova era della viticoltura caremese.

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