Ritratto di una leggenda Walter Albini è il padre della moda che il sistema ha rimosso

Rappresenta l’elefante nella stanza, il non detto perpetuo, le origini che abbiamo voluto dimenticare che qualche conglomerato, oggi, sta tentando di riportare in vita. Stiamo parlando di Walter Albini, l’inventore del prêt-à-porter, che la giornalista Anna Piaggi definì «il maestro dell’artificiale naturale»

Ph Alfa Castaldi

Se non avete ancora ascoltato la nuova puntata de “La teoria della moda”, il podcast di Giuliana Matarrese per Linkiesta Eccetera dedicato al fashion system, cliccate qui.

A inizio maggio, Bidayat ha acquisito la proprietà del marchio e una parte importante degli archivi di Walter Albini, il vero e unico padre della moda italiana, nella speranza di creare consapevolezza intorno all’eredità lasciata dallo stilista. E quindi non poteva esserci occasione più ghiotta di questa per provare a tracciare i contorni di un ritratto cancellato dal tempo e dalle dimenticanze collettive.

Pochi libri esistono ad oggi su di lui, e tutti al momento introvabili: Walter Albini di Gloria Bianchino è del 1988, dello stesso anno è Walter Albini: lo stile nella moda. C’è poi Walter Albini e il suo tempo, l’immaginazione al potere di Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi, pubblicato nel 2010 da Marsilio Editore in occasione della settantasettesima edizione del Pitti e Walter Albini a cura di Carla Sozzani e Anna Masucci del 1990 ( questo invece si ritrova online, usato, alcune copie al costo di 200 euro).

Nessun libro però è stato capace di fornire un ritratto completo di una personalità duplice, come il suo segno, quello dei Pesci, sfuggente, impossibile da definire. Stilista e super star, eclettico e fluente in ogni linguaggio estetico, quello dell’abbigliamento così come quello del table dressing e dell’interior design, con favolose dimore veneziane e marocchine, con una passione per l’astrologia: «Ventisette anni, nato sotto il segno dei Pesci», si leggerà nel 1967, quando Vogue Italia lo introduce al mondo.

Capace di presentarsi alle cene a tema caccia con maschere lungopennute di fagiano reale, di idolatrare contemporaneamente una certa estetica molto più carnale, mediterranea, sacrilega, con le t-shirt dalle parole assai grafiche stampate sopra e le mostre di falli che simboleggiano personaggi famosi – nel 1977, alla Galleria Eros di Milano. Walter Albini è il trauma rimosso par excellence.

Ph Alfa Castaldi

Un dandy alla maniera del Gatsby di Fitzgerald e un epigono dei ragazzi di vita pasoliniani, con le camicie aperte a mostrare il petto abbronzato, il fisico magro e nervoso avvolto in pantaloni così ampi da sembrare gonne, i riccioli ribelli che gli incorniciavano un volto severo: neanche gli amici più stretti, che lo hanno accompagnato per una vita e che dal suo fascino erano soggiogati, sanno fornire di lui un ritratto che vada oltre l’immagine multiforme e sfuggente che Albini ha sempre voluto proiettare di sé. Perché Walter è stato il primo a capire che la griffe, il brand, doveva identificarsi con il suo creatore, in una totale immedesimazione, che l’uomo doveva trasformarsi nello stilista, e lo stilista nell’incarnazione di uno stile. Il suo.

Di primati però Walter Albini, negli anni nei quali ha operato fino alla morte nel 1983, a soli quarantadue anni, ne ha conquistati molti: è stato il primo a capire l’importanza dell’apparato produttivo, della vicinanza alle industrie; il primo a sviluppare due linee, la sua WA – composta dalle sue iniziali, più costosa, con una grafica nella quale le sue iniziali si intersecano per formare un’aquila, seguendo lo stile del Wiener Werkstätte, comunità austriaca del design che partorì il proto-razionalismo – e la seconda Misterfox, il cui nome gli fu suggerito da Anna Piaggi; il primo stilista se non proletario, quanto meno borghese, visto che molti creativi italiani di allora erano dotati di blasone, da Emilio Pucci a Irene Galitzine, che era addirittura figlia di una principessa.

Il primo “stilista” a dirla tutta: prima c’erano i couturier, e quel nome si dice fu pensato proprio per lui, sempre dalla fidata Anna Piaggi; il primo a capire dell’importanza del total look, e infatti il WWD nel 1971 lo definisce l’uomo del “putting it together” inteso sia come la capacità di creare un’uniforme totale, sia per l’abilità di mettere insieme la creazione stilistica con un tessuto di aziende che quella creazione potevano riprodurla in serie (negli stessi anni nei quali si pubblicava in Italia il saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica); il primo a introdurre la musica alle sue sfilate (negli stessi anni lo faceva in Inghilterra uno stilista molto vicino a lui, Ossie Clark).

Ph Alfa Castaldi

Il primo a pensare l’Unimax, intesa come uniformità di tagli e colori per uomo e donna. Se Yves Saint Laurent aveva infatti inventato le smoking, Walter, che disegnava già anche una linea da uomo costruita su di sé, tanto da divertirsi a fare da modello per le sue campagne pubblicitarie su L’uomo Vogue, era andato oltre: uomo e donna potevano scambiarsi agevolmente i ruoli, infilarsi l’uno nei panni dell’altra, in un malizioso gioco delle parti privo di retorica che anticipa di cinquant’anni tutti i discorsi sul gender fluid. E infatti molto spesso si accompagnava alle sue muse, in uscite a cena o per la città, con vestiti simili, quasi uguali, una su tutti la modella e amica Emy Vincenzini che indossava i suoi stessi completi maschili.

Vittima consapevole di un certo culto della personalità, lo userà a suo vantaggio per tutta la sua carriera per farsi notare dall’occhio della stampa: quando ad un certo punto viene aperto a Milano un ristorante Fiorucci, Walter realizza un’installazione con venti manichini che indossano maschere del suo volto. Nel 1976, invece, per raccontare la sua collezione uomo, organizza una mostra alla Galleria Marconi, con i suoi ritratti firmati da Nini Mulas, Alfa Castaldi, Aldo Ballo o Maria Vittoria Backhaus, nei quali interpreta la sua collezione.

Ma torniamo agli inizi: l’attitudine di sfida, con lo snobismo strafottente e artefatto che solo chi arriva dalla provincia può avere – nel suo caso si parla di Busto Arsizio – si vede sin dagli albori. È il primo uomo a frequentare l’istituto di arte, disegno e moda di Torino, scuola storicamente femminile. Già allora si dedicava a disegni e illustrazioni – che poi, negli anni seguenti si trasformeranno nei suoi famosi croquis, gli schizzi alti dai trenta ai cinquanta centimetri eseguiti in uno stile incredibilmente a metà tra il minimalismo crudele dello Jugendstil di Schiele e Klimt e la barocca ridondanza di Poiret. Schizzi incredibilmente cinematografici a differenza dei bozzetti impersonali che nella maggior parte dei casi venivano disegnati in azienda (non era scontato che a disegnarli fosse lo stilista) con le modelle e i modelli descritti nelle pose, negli accessori, nell’ambiente circostante: molti di loro furono venduti dallo stesso Albini nel suo show-room di Via Cossa a Milano, nel 1974, per festeggiare il primo decennio di attività.

Original sketch by Walter Albini, used as a press release for the “Unified collection,” FW 1971/72, presented in Milan at Circolo del Giardinoon 27th April 1971. Credit: Bidayat

Ancora lontano da questi risultati, finita la scuola, Walter si reca per un certo periodo a Parigi, tra il 1961 e il 1964, su suggerimento di Gigliola Curiel per perfezionare la sua tecnica di illustratore e lavorare per agenzia di stilismo di Maimé Arnodin e Denise Fayolle, per la quale realizza maquette per tessuti, e lì avviene l’incontro fatale con Coco Chanel, che lui incrocia per strada, una donna già nella fase discendente della carriera e non più giovane. Appassionato della decade tra il 1925 e il 1935 – un decennio nel quale si rivoluziona la danza, la musica, l’archittettura, ma anche la moda tramite l’eliminazione dei corsetti, l’introduzione di tessuti usati per l’intimo come il jersey nel guardaroba quotidiano, le gonne che si accorciano e i capelli con il taglio da flapper – Walter non può in effetti che idolatrare Coco, che in quegli anni lancia il suo brand e della quale si vede come il contraltare maschile. «Tutto si fonda su ciò che fu fatto da Chanel intorno al 1925», diceva spesso nelle interviste.

E una donna rivoluzionaria, androgina, simile a Coco, ma ben più seduttiva, è quella che immagina di vestire, tratteggiandone un ritratto estremamente preciso con il giornale Punk Artist di Graziano Origa. «Ho appena fatto una descrizione per la donna che vorrei vestire: è una cosa per un profumo, te la leggo pari pari. Attraverso la descrizione troviamo il profumo adatto. Allora: dai trenta, trentacinque anni in su. Come esempio ho messo da Charlotte Rampling a Katherine Hepburn. Magra ma con ossatura solida. Spalle dritte e larghe. Busto lungo, fianchi stretti, poco seno. Testa piccola, capelli di media lunghezza tendenti al corto. Non eccessivamente sportiva, ma con l’aspetto di chi pratica sport. Ambigua, durissima e forte, almeno d’aspetto. Fuma molto, viaggia, non è necessariamente sposata. Lavora ma sembra perennemente in vacanza. Ha stile, elegante, misteriosa, sola, adattabile ma non coinvolgibile. Non necessariamente bella, ma sicuramente irresistibile». Se vi sembra molto simile alla donna che vestirà solo dopo Giorgio Armani, è perché lo è: non lo dico io, lo scrive Maria Luisa Frisa nel saggio Prediletto dagli dei, all’interno del libro Walter Albini, l’immaginazione al potere.

Dalle donne dalla forte personalità lui è affascinato e sempre a Parigi ne incontra un’altra, che lo convince a tornare in Italia e a lavorare per lei, nel reparto di maglieria: lei è Maria Mandelli, in arte Krizia, il compagno di banco per un anno è Karl Lagerfeld, che per Krizia lavorò in qualità di consulente. E proprio nella carriera di consulente Albini decide di imbarcarsi, seguendo brand diversi per tipologia di prodotto, e quindi non concorrenti, che realizzano pantaloni, maglieria, abiti, a cui riesce negli anni a regalare una coerenza unica. Laddove alcuni designer saranno dotati per tutta la vita di un solo stile, di una firma che, con minime variazioni, riprodurranno in tutte le maison dove saranno chiamati, Walter Albini è multiforme, metamorfico, regala identità ad ogni brand che cura e riesce ad amalgamarli tutti in uno stile coerente, distintivo.

Ph Alfa Castaldi

Walter Albini sente il tempo prima che arrivi, ma è soprattutto sacrilego, pur con un sorriso serafico stampato sul volto. Nel 1976, per una pubblicità di Trell si fa scattare come un novello Gesù di Nazareth, in un corridoio di abiti indiani che roteano intorno a lui, come cherubini protettori di una visione globale del mondo, molto affascinata dalle culture all’epoca definite erroneamente come “etniche”, fascinazione che ha in comune con Saint Laurent. E proprio mentre Saint Laurent sarà ritratto nudo per sponsorizzare il suo profumo, da Jeanloup Sieff nel 1971, Walter si ergerà sopra una montagna di vestiti, novello Siddharta, una Venere degli stracci di Pistoletto, edizione ready to-wear. Non si fa problemi a scandalizzare creando uniformi urbane, con tute da lavoro a metà tra i look del fotogiornalista e pittore Alexandr Rodchenko e gli esperimenti tessili di Sonia Delaunay con tanto di passamontagna, uno scandalo negli anni Settanta, durante i quali quell’accessorio era indossato da movimenti terroristici degli estremismi politici di ogni colore. E via di croniste scioccate che abbandonano la sfilata.

La sua preparazione come stilista è globale, non disegna solo i suoi abiti, ma persino i suoi tessuti e li disegna pure per altri, come dimostra la sua collaborazione con Gerolamo Etro, in arte Gimmo, fondatore del brand per il quale Walter disegnerà i famosi tessuti stampati. Partecipa nel 1969 a Idea Como, per informarsi soprattutto su metodologie e tecniche per trattare la seta: insieme a lui anche Karl Lagerfeld, ugualmente interessato a capire come collaborare al meglio con i tessutai per regalare ai clienti un’offerta di prodotto pensato a vari livelli con unità di stile, peso e collezioni. In quegli anni, nei quali si sfilava tra Capri e Firenze, mete del turismo internazionale, Walter stava mettendo a punto l’idea del total look, e maturando il desiderio di cambiare collocazione geografica per le sue collezioni, posizionandole più vicino alle industrie, e di conseguenza a Milano.

Certo, in passato molti altri stilisti avevano mancato l’appuntamento con le sfilate fiorentine inaugurate da Gian Battista Giorgini nel 1951, ma lo avevano fatto per tornare a Roma, città che negli anni Sessanta, complice l’industria cinematografica americana, era stata trasformata nell’Hollywood sul Tevere, meta degli interessi del turismo internazionale. Nel 1971, invece, Walter, insieme ai brand Cadette e Ken Scott opta per Milano, con una sfilata nel Circolo del Giardino, contribuendo, con la sua defezione, a scatenare una sorta di lento movimento che si sposterà al nord a presentare le collezioni, dando forma a quella che oggi chiamiamo Milano fashion week.
Una sfilata di due ore, che lascia le croniste stremate dallo straboccare logorroico di talento: i capispalla e i pantaloni sono di Basile, gli abiti di Misterfox, il jersey di Callaghan’s, la camiceria di Diamant’s, la maglieria di Escargot’s.

Ph Alfa Castaldi

Eppure, Walter va ad una velocità che supera persino quella rutilante di Milano: grazie ad un accordo con ognuno dei brand per i quali lavora, riesce a convincerli della bontà dell’idea di aggiungere il suo nome al loro. Walter Albini x Trell, Walter Albini x Billy Ballo, e via discorrendo, iniettando in anticipo di quarant’anni l’idea della co-lab che regala prestigio al brand per l’addizione dello stilista star, uno stilista che, con consapevolezza, crea su di sé una mitologia: si fa ritrarre a Capri sullo sfondo di panorami mozzafiato, nelle sue case da lui arredate a Milano, Venezia e Sidi Bou Said, nei servizi di Casa Vogue dove è immortalato come elegante anfitrione, con altrettanto eleganti ospiti, dalle sue modelle Daniela Morena, Isa Stoppi ed Emy Vicenzini, alla fotografa Maria Vittoria Backhaus. Un conte Fersen, dandy dannato, o forse un principe di Mantova: e da quest’ultimo si veste durante la sua sfilata nel 1975-1976, nell’occasione nella quale chiama ventun amici a sfilare con lui, interpretando altrettanti personaggi da melodramma: il fotografo fidato Guido Cegani diventa Figaro, la modella musa Emy Vicenzini diventa Walter Albini.

Le sue spericolate incursioni in ogni ambito del lifestyle – le mostre, le installazioni, la creazione di mobili, persino la sperimentazione con i video come forma di comunicazione nel 1981 – hanno successi altalenanti, sono adorate all’estero, dove Walter è considerato un nome autorevole, definito «forte come Saint Laurent» (e infatti apparirà nelle pagine di Harper’s Bazaar come modello della sua linea uomo nel 1972, scattato da Hiro, al braccio di una sua modella vestita della collezione Bandierine) e meno considerate in Italia, ancora troppo provinciale per prestare attenzione a lui. Infatti, particolarmente ferito dalla loro ignavia, fa appendere dei cartelloni per Milano per far sapere che alle sue sfilate sono bandite le giornaliste. Un assunto assolutista che come tutto ciò che lo riguarda durerà il tempo di una stagione.

A fare eccezione è la pioniera del giornalismo di moda Anna Piaggi, che fa scattare gli abiti di Walter da suo marito Alfa Castaldi così come da Chris Von Wangenheim. Ad essere conquistata dal suo gusto per gli interni è invece Isa Vercelloni, direttrice di Casa Vogue, che gli affida la creazione di alcuni servizi per il magazine: ci sono certo, degli shooting realizzati nella sua casa milanese di Piazza Borromeo, ma poi anche quelli nei quali Walter dà prova del suo talento nel table dressing. Immagina tavole apparecchiate per Natale con piatti bicromatici, con i muri decorati da frange da circo di provincia, o piatti a forma di cuore bianchi e azzurri. Negli anni nei quali si forma il design e la grafica milanese che è oggi ossessione dei cultori, dei rigorosi Castiglioni, Lupi e Mari, lui riscrive quei canoni autorevoli, con incursioni auto-ironiche, semiserie. La casa milanese di Piazza Borromeo nel 1977 si trasforma in un paradiso per l’ancora inesplorato industrial design: pavimenti di resine, colate di grigio alle pareti, armadi metallici e sedie in alluminio. La casa di Venezia, invece, di fronte al Guggenheim, ricorda le atmosfere decadenti del caffè Florian, le stesse dove ambienterà una sua sfilata.

Ph Gian Paolo Barbieri

Il problema e il deficit di Albini, quello che gli impedirà di raggiungere i successi eterni di Saint Laurent o Valentino, è che non c’è nessun Bergè o nessun Giammetti accanto a lui: l’uomo dei conti, il compagno che segue il lato del business, permettendo al creatore di occuparsi solo della propria arte, la calcolatrice che limiti i rischi e massimizzi le entrate. Albini è generoso e facile al dispendio: le vacanze in compagnia a Capri sono gentilmente offerte dalla sua mano munifica, alla sfilata al Caffè Florian di Venezia, dove i modelli hanno nomi di dogi e dogesse e sono strizzati nella tuberosa, i clienti vengono fatti arrivare su un aereo messo a disposizione per loro e a fare da colonna sonora c’è un’orchestra in Piazza San Marco. A un certo punto però il portafoglio non sarà più gonfio, non per mancanza di talento o apprezzamento dal pubblico, ma per la mancanza di una strategia economica che abbia un orizzonte più ampio del domani.

Arrivano gli anni Ottanta e la stampa non è più interessata a lui. Walter morirà nel 1983 alla casa di cura La madonnina di un male di cui nessuno è a conoscenza o vuole pronunciare. Alcuni diranno che non si trattava di Aids perché all’epoca chi aveva contratto una qualunque malattia infettiva veniva portato al Luigi Sacco di Milano, ma nessuno ha mai davvero voluto andare a fondo della questione. Forse il mondo aveva preso un ritmo veloce e Walter Albini era già passato. Eppure Walter di quel mondo aveva messo le basi, arrivando troppo in anticipo rispetto agli altri, apparecchiando il tavolo di un sistema come uno di quelli che preparava per le sue case, un banchetto al quale mangiarono poi gli altri, senza premunirsi di ricordarlo mai a chi è venuto dopo, con una stampa che nella maggior parte dei casi è stata complice di quella dimenticanza casuale, o forse no.

Walter Albini ha vissuto alla maniera di certe dive del melodramma, di certi eroi romantici, ma in salsa camp, facendo della sua vita una recita, o, come lo definiva la filosofa Susan Sontag ne Appunti sul Camp, mettendo tutto tra virgolette. Il maestro “dell’artificiale naturale”, come lo chiamò Anna Piaggi, aveva capito prima di tutti che più dell’abito, del prodotto in sé, era importante chi ci si infilava al suo interno, lo abitava, rendendolo vivo. «Bisogna imparare la libertà di vestirsi fuori da ogni schema. Il consumismo produce oggetti, non stili. Io mi guardo attorno, scelgo, combino, propongo», disse.

Una lezione che molti dovrebbero studiare ancora oggi, e che si spera, un giorno, il direttore creativo incaricato – sul quale non si hanno ancora conferme – si darà la pena di rispolverare insieme ai suoi abiti pre-raffaeliti con le stampe a stelle o con le bandierine. Aprendo le porte di un archivio nel quale un uomo ha guardato al passato per costruire un futuro del quale purtroppo, non è mai stato fatto protagonista.

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