Una nuova serie podcast alla scoperta dell’Italia più autentica by Loro Piana & Linkiesta Eccetera. Terza tappa: perdersi e ritrovarsi nell’entroterra salentino, tra chiese, musei e un po’ di malinconia. Prendete un bicchiere di Chardonnay, alzate il volume, e preparatevi a partire, direzione Puglia.
Le prime due puntate del podcast:
–Un brunch tra le vigne toscane
–Nuotare, bere vino e ridere della vita a Portofino
Il testo della puntata dedicata al Salento:
“Quale storia vuoi raccontare oggi?”
La domanda che Caterina si pone ogni giorno, da quando è bambina, guardando l’armadio, in quel preciso momento ha un valore diverso, quasi sacrale. Cappe bicolor con profilo in effetto passamaneria, abiti kimono color terracotta in crêpe sablé di seta, pantapalazzo in lino e bluse in seta cammello sono ammantate di una luce rosata, che poi è la luce riflessa, su quel palazzo settecentesco, dalla cattedrale di Santa Croce che si staglia fuori dalle sue finestre, nel centro di Lecce. Si è alzata all’alba, troppo eccitata per continuare a dormire, ha guardato a lungo quella foto, quella che Giorgio le aveva dato a Portofino, come fosse un rebus da risolvere. Ora, contempla da diversi minuti l’interno dell’armadio della sua camera al Patria Palace, un tempo residenza di una famiglia nobiliare, e oggi trasformato in hotel affacciato nel mezzo del centro storico, un esempio di barocco comune in quell’area della Puglia, ma non per questo meno scenografico.
Rifiutandosi di pensare ulteriormente, sceglie una camicia a tunica in seta, con quattro bottoncini al collo, abbinata a un pantalone in lino e Cashmere effetto tweed con il fondo chiuso da due bottoni. Vi aggiunge un blazer doppiopetto dalla linea leggermente over, sistema tra i passanti una cintura con lavorazione macramè, e completa il tutto con dei sandali in pelle chiusi con un cinturino alla caviglia. Non c’è molto che possa fare per immaginarsi come andrà quella giornata, ma di certo così vestita si sente più pronta ad affrontarla. A colazione, sulla terrazza dell’hotel, affacciata sulla cattedrale, tira fuori dalla shopper in pelle color terracotta, lavorata a effetto rete, quella foto, mentre sbocconcella un pasticciotto, dolce locale di pasta frolla ripieno di crema pasticciera di cui ha già fatto incetta quando è arrivata, due giorni fa.
Ha guardato quella foto in maniera ossessiva, cercando di carpirne ogni dettaglio, ogni messaggio nascosto, ma non riesce a trovarne, per quanto si affanni. Ha solo scoperto di aver preso il naso, leggermente prominente, da suo padre, mentre la fossetta sulla guancia è eredità materna. Sono molto giovani, di loro non conosce nulla, hanno volti sui quali è impossibile leggere qualcosa che non sia un’assoluta leggerezza, quella che poi accompagna qualunque essere umano durante una calda estate italiana. Non sa quali risposte otterrà oggi, e sfortunatamente non è neanche certa di ottenerne. Quando ha provato a chiamare l’unico numero con un prefisso di quelle parti, presente sull’agendina di sua madre, le ha risposto un ragazzo: Alex non pareva avere idea di cosa parlasse, e quel numero di telefono non corrispondeva più ad un’abitazione privata, ma ad una masseria dispersa nel Salento, trasformata in retreat per viaggiatori alla ricerca di un’esperienza autentica di quell’angolo di Puglia che per il suo mare, assomiglia alle Maldive, e che da quello che ha avuto modo di vedere, è purtroppo imballato di turisti di ogni nazionalità, attratti dalle bellezze naturali e dai prezzi, piuttosto convenienti per chi viene dagli Stati Uniti.
Eppure quel numero, indicato come Casa Lenzani, era sottolineato, come se fosse particolarmente importante. La conversazione era proseguita via whatsapp, aveva mandato la foto ad Alex chiedendo se lui o la sua famiglia ricordavano qualcuno simile a quella coppia abbronzata e felice fotografata in una villa di Portofino. Alex aveva qualche anno più di lei, improbabile fosse a conoscenza di qualcosa, ma magari i suoi genitori potevano saperne di più. Dopo qualche ora e dopo essersi confrontato con sua sorella maggiore, Alex le aveva risposto, dandole appuntamento a Lecce. Sarebbe passato a prenderla lui – e ci aveva tenuto a farle capire che avrebbe di gran lunga preferito dedicarsi al surf, considerato che erano giorni di vento buono – e le avrebbe detto quello che sapeva. Un messaggio su whatsapp l’avvisa che Alex è arrivata, ha parcheggiato poco distante, non si può entrare nel centro storico con la macchina, la aspetta all’angolo della strada. Infila foto e agendina nella borsa, guarda per un attimo con un certo languore il pasticciotto che non ha ancora finito, e si alza dal tavolo.
Nella confusione di una domenica mattina, mentre le campane segnalano la fine della messa, e i fedeli si riversano fuori dalla cattedrale, poco distante, potrebbe essere difficile riconoscerlo, il tempismo non è dalla sua parte. D’altronde, sul profilo whatsapp Alex non ha neanche una sua foto, ma un’immagine in bianco e nero di un nativo americano, che non le rende le cose più semplici. Si fa strada tra donne con vestiti a fantasie floreali dai colori accesi, pesanti collane dorate e sandali gioiello. Persino le signore più anziane, tenute per il braccio da qualcuno della famiglia, non rinunciano alla vanità e sfoggiano orecchini a candelabro, aiutandosi con un bastone a scendere le scale del sagrato. Il festoso baccano dei bambini, che si sfogano dopo un’ora nella quale sono stati costretti al silenzio, riesce quasi a silenziare le campane e il vociare di quanti si salutano, scambiandosi notizie e auguri in un giorno di festa. Se lo riconosce, è grazie alle macchina.
Tra le Mercedes e i bolidi di grossa cilindrata, tenuti in garage per tutta la settimana e sfoggiati, come l’abito migliore, solo la domenica, spicca una jeep bianca copiosamente macchiata di fango. La capotte nera in tela è abbassata, a mostrare un surf che sporge dal finestrino, con un adesivo rosso con la faccia di Elvis Presley. Alex è appoggiato allo sportello, mentre guarda la scena che si svolge di fronte ai suoi occhi con una certa ironia nello sguardo, anche se mascherata dagli occhiali da sole dalla montatura da aviatore. Indossa delle scarpe da skater, dei jeans neri a gamba dritta che fasciano un corpo nervoso, una t-shirt dedicata a un qualche gruppo metal. Non sembra soffrire il caldo di Agosto in quella tenuta, anche se i capelli neri gli toccano le spalle. D’altronde, il colorito ambrato della pelle è indicazione che lui, in quei posti, ci è nato, e non sarà certo un po’ di sole a 32 gradi a infastidirlo. Quando trova il suo sguardo, e la riconosce – perché, lei, invece, come tutte le persone normali, e forse anche banali, su whatsapp ha una sua foto al mare – le fa cenno, senza sbracciarsi troppo. Si inserisce direttamente in macchina per aspettarla, mettendo in chiaro che non ha molta voglia di convenevoli.
Il viaggio non aiuta a metterla a suo agio: con Alex si scambiano poche parole, lui non le ha detto dove la porta, lei ha quasi terrore a chiederglielo. La radio passa una vecchia canzone dei Dandy Warhols, Mohammed, un brano con un riff che sembra venire dal Medio Oriente, una chitarra minacciosa ma che non ha bisogno di alzare il volume per farsi sentire, le parole sono cantate come se si recitasse una sommessa preghiera pagana.
«Non è esattamente la colonna sonora che mi immagino per un posto del genere» commenta divertita mentre fuori dal finestrino, sulle statali deserte, si intravede il mare e la strada è costeggiata da alberi d’ulivo rigogliosi. L’odore salmastro misto alla macchia mediterranea entra nelle narici con prepotenza.
«Allora vuol dire che questo posto non lo conosci bene» le risponde lui, senza neanche darsi la pena di staccare lo sguardo dalla strada per risponderle, con un mezzo sorriso sardonico sulle labbra.
Ok. Rispetto ad Alex persino il riserbo distaccato che le aveva mostrato Giorgio a Portofino, per le sue validissime motivazioni, sembra caloroso. Guardando nell’abitacolo della macchina, oltre a qualche cartina geografica plastificata – abbastanza inusuale nei tempi di google maps – nota arrotolato intorno allo specchietto, un rosario.
«Sei religioso?»
«No, sono pugliese»
Bene, i suoi sforzi per tirargli fuori qualche parola sono ufficialmente stati sconfitti. Fortunatamente sembrano arrivati: Alex parcheggia in una stradina laterale, spegne la radio e le fa segno di seguirlo. Si inoltrano nel centro storico, dai cartelli stradali che ha visto entrando nel paesino, dovrebbe essere la città di Galatina, ma non sa di più. Svoltato l’angolo, si trova in una piazza completamente deserta, dominata da una chiesa romanica in pietra leccese. A stupirla, però, è che nella piazza, con quel sole e quel vento piacevole, non ci sia nessuno: in realtà, notando le strade cittadine mentre vi si avvicinavano, sembrava che l’intera città fosse pressoché disabitata.
«No, è solo la controra» le risponde Alex divertito dallo stupore, avvicinandosi all’ingresso.
«La contro cosa?»
«La controra. La siesta. Dopo pranzo in estate è troppo caldo per stare all’aperto. E poi, in realtà, non si dovrebbe neanche. Secondo le credenze popolari questa è l’ora nella quale si palesano spiriti e divinità malevole. Anche se oggi, la gente preferisce riposare, che poi è la cosa che ti consigliano proprio di fare i medici, per facilitare la digestione di pranzi sempre troppo abbondanti» sottolinea non senza un certo sarcasmo. «Però nel silenzio assoluto, senti solo le cicale. Non c’è colonna sonora migliore» conclude aprendo il portone della chiesa.
Caterina non è preparata a quello che si trova al di là dell’ingresso. All’interno della cattedrale romanica, apparentemente spoglia dall’esterno, contraddistinta solo da un grande rosone e una facciata tricuspide, lo spazio sembra sconfinato. La struttura è suddivisa in cinque navate, da quella centrale si accede ai deambulacri attraverso tre grandi archi a sesto acuto. Alcune colonne sono ornamentali e culminate da capitelli, altre invece sorreggono costoloni che si congiungono poi sul tetto, creando una suddivisione a vele. A sconvolgerla è però la quantità e i colori degli affreschi: la chiesa sembra una pinacoteca, più che un edificio di culto. Di fronte alla sua evidente sorpresa, Alex sembra finalmente divertito, e, con calma, seduto su una delle panchine in legno vicino all’altare, le chiede di mettersi accanto a lui, spiegandole ognuno di quegli affreschi, iniziati nel 1400. Nelle vele della prima campata ci sono le Virtù teologali, poco distante un ciclo di affreschi dedicati alla Genesi, agli Angeli, all’Apocalisse. «In Italia ci sono più affreschi solo nella basilica di San Francesco d’Assisi» conclude non senza mostrare un certo orgoglio.
«Perché mi hai portato qui?»
«Non volevi sapere perché ti chiamavi Caterina?»
«Sì, certo»
«Ne ho parlato con mia sorella, lei era bambina all’epoca dei fatti, ma qualcosa se lo ricorda». Alex spiega con calma, e una voce che sembra addirittura essersi fatta più dolce, che i suoi vennero a visitare quella chiesa, sospinti dalla passione per la storia dell’arte di sua madre, che ovviamente, da quella visione, fu rapita, innamorandosene all’istante. D’altronde, come non rimanere affascinati dalla basilica di Santa Caterina d’Alessandria?
Non sa perché, ma quella rivelazione la delude, un po’. Si chiamava come una santa a cui era dedicata una chiesa del sud particolarmente scenografica: ha una sua logica, ma non sembra in fondo abbastanza. Alex finge di non aver visto la delusione in quegli occhi, dice che ha fame, che è già tardi ma forse trovano posto da un suo amico, se si sbrigano.
Caterina lo segue, talmente confusa da sembrare aver perso qualunque tipo di volontà. Alla Taverna del porto, a Tricase, accolgono Alex come un amico di famiglia, e nonostante la cucina stia per chiudere, li portano a sedere al piano di sopra della trattoria, dalle cui ampie finestre si scorge il mare, e due sdraio a righe collocate sul marciapiede sottostante, dove due camerieri che hanno finito il turno, chiacchierano fumando una sigaretta, con indosso una t-shirt bianca che riporta il logo del ristorante, e degli eleganti pantaloni in lino. In tavola arrivano tempura di baccalà con maionese all’aglio e peperoncino affumicato, crudi di mare, seppie alla griglia con cipolla bruciata.
Ha lasciato scegliere ad Alex, mentre guarda fuori dalla finestra, e la Puglia sembra un quadro, anche se non è dell’umore per goderne. In sottofondo c’è qualche melodia Anni 60, Alex ha ordinato una birra per sé, lei ha preso un bicchiere di chardonnay, ma forse aveva ragione prima, quando diceva che quella zona della Puglia non ha la colonna sonora che ci si aspetterebbe, e quelle note che in un altro momento avrebbe amato, ora le sembrano stonate. Cerca di distrarsi chiacchierando con Alex, che ha vissuto fuori casa tutta una vita, studiando all’estero antropologia, allontanandosi migliaia di miglia da casa sua, per poi capire che, alla fine, tutto quello che gli serviva, era lì. Il mare, una tavola da surf, e la vecchia casa dei nonni dove era cresciuto, che ha trasformato in un boutique hotel con pochissime camere, lontano dall’odioso turismo di massa e dalla folla.
Il pomeriggio passa veloce, Alex si dimostra assai meno ombroso di come si era presentato, la porta in giro per alcuni paesini dell’entroterra, le mostra chiese e musei, spiegandole le tradizioni del folklore locale sulle quali poi aveva dato la sua tesi di laurea, prima di tornare a casa. Una strana sensazione di melancolia si è impossessata di lei: quel viaggio sembra essersi concluso, eppure non le ha dato la soddisfazione che pensava. Quando Alex le chiede se vuole passare da lui, perché sono poco distanti dalla masseria dove si è ricavato un appartamento, accanto alle camere per gli ospiti, accetta senza pensarci. D’altronde non ha molti altri impegni che l’attendono, ma solo un volo di ritorno a casa da prenotare.
Prendono delle vie laterali, si immergono nella boscaglia, la luce del tramonto sta quasi per andare via, torna sulla radio quella canzone dei Dandy Warhols che sembra cullarla verso un miraggio lisergico. Quando arrivano da lui, Alex deve toccarle la spalla con delicatezza, per risvegliarla dal suo torpore. Scende dalla macchina mentre lui va a chiudere il pesante portone in legno del garage, e la conduce verso la struttura, una torre in pietra bianca, una costruzione del 500, quando da quelle parti le masserie fortificate si usavano come vedette, per controllare dall’alto l’arrivo degli invasori saraceni.
La casa è illuminata, dal tetto arriva un vociare allegro, insieme a della musica e all’odore di qualcosa di delizioso che sfrigola su una brace. Appoggiate alle pareti esterne, ci sono delle tavole da surf che sembrano essere state appena lavate e lucidate. Quando guadagna finalmente la terrazza, tramite una scala interna, si trova di fronte una tavola rumorosa, dove diversi amici cenano. Alex saluta, si siede subito accanto a loro, sono evidentemente altri surfisti che a differenza sua, hanno passato la giornata in mare. Prima di farlo però, le presenta sua sorella, Paola, che gestisce con lui l’hotel. La serata scorre piacevole, la tristezza passa in sottofondo ed è coperta da quelle note abbacinanti, mediorientali, riprodotte da una cassa bluetooth.
«Non ti ha ancora raccontato tutta la storia, immagino» le chiede Paola, mentre le offre un bicchiere di vino.
«Quale storia?»
Paola lancia uno sguardo eloquente ad Alex, dall’altra parte del tavolo. Lui sorride, aprendo le mani, a scusarsi, ma senza troppa convinzione. Paola gli fa segno di raggiungerle, mentre prende le scale per scendere al piano di sotto, attraverso un grande salone con un lungo tavolo in legno, dove gli ospiti fanno colazione tutti insieme la mattina, sorpassando una credenza nella quale convivono servizi per la colazione, libri dedicati al surf e volumi sulle piante medicinali della zona.
Paola ha una cosa da darle, le dice, e anche qualcosa da dirle. Alex non si fida mai di nessuno, è sempre sospettoso come il nonno, si scusa Paola per lui, ma bisognava scusarlo, d’altronde parlare dei genitori di Caterina corrisponde a parlare anche della loro famiglia, e da quelle parti si è tutti riservati. Mentre Caterina, in uno stato di confusione, si appoggia su un divanetto sorseggiando il suo bicchiere, Paola chiede ad Alex di andare nella camera dei nonni, e prendere la scatola nel cassetto accanto al letto.
Con voce morbida e cadenzata, Paola spiega che i suoi genitori erano venuti a casa loro, un giorno d’estate. Lei aveva cinque o sei anni, Alex molto più piccolo. Sua madre aveva mostrato segni di una febbre che non scendeva, continuava a stare male, i farmaci non sembravano avere effetto, quindi si erano rivolti a sua nonna.
No, non era un medico, spiega prima che Caterina glielo chieda: era una donna molto anziana, che lavorando per una vita nei campi, era diventata esperta di erbe medicinali, e, in un paesino come il loro, lontano da tutto e da tutti, senza molti medici nelle vicinanze, gli abitanti si rivolgevano spesso a lei. Personaggi poi diventati leggendari nel folklore della zona come “macare”, le maghe, anche se in un posto come quello, dove sacro e profano, religione e paganesimo, si sovrappongono costantemente, non è rilevante. La realtà era che, semplicemente, sua nonna aveva curato sua madre, che si era ripresa velocemente da quella febbre strana.
I suoi genitori volevano ripagarla, ma secondo la tradizione, le macare non si fanno pagare mai in denaro, perché non è quello il motivo del loro agire. I bei gesti non si fanno nella speranza di una ricompensa ma con l’obiettivo di ristabilire una sorta di karmico equilibrio universale, o almeno così diceva sua nonna, anche se lo diceva in dialetto, e con parole ben diverse, spiega Paola ridendo. In cambio, aveva solo chiesto che i due portassero un’offerta a suo nome alla chiesa di Santa Caterina: lei era già anziana e non usciva più di casa, però era particolarmente devota a quella santa, dalla quale aveva preso il nome.
«Tua nonna si chiamava Caterina?» chiede trafelata
«Si, come te. E non credo sia una coincidenza».
Nel frattempo Alex è riemerso dalla camera da letto, sorridendo, con in mano una scatola in legno, che porge a Paola.
«Non è mia, dalla alla proprietaria» risponde divertita lei, indicando Caterina.
Prende in mano quel piccolo portagioie, chiedendo con lo sguardo ai due se può aprirlo. Alex annuisce. All’interno c’è una catenella in oro, di una semplicità essenziale, alla quale è attaccato un ciondolo di madreperla.
«I tuoi genitori volevano comunque sdebitarsi con mia nonna, le dettero questa collana, che pare fosse l’unica cosa di valore che tua madre aveva con sé all’epoca, che poi è quella che indossa nella foto che hai mandato ad Alex» spiega Paola. «La nonna l’accettò, ricordo la scena come se fosse oggi, anche se ero bambina, i tuoi erano sull’ingresso di casa. Gli disse però che non era per sempre. «Questa collana non è mia, non lo è stata mai. Però la conserverò per voi. Perché qualcuno tornerà a riprendersela, e io gliela restituirò». Ora, lei è scomparsa tempo fa, però possiamo restituirtela noi, insieme ad un pezzo della tua storia, che poi in qualche modo strano, si è incrociata con la nostra. E perdona Alex, per non averti detto tutto prima, la nonna non faceva esattamente pubblicità del suo lavoro. E non è qualcosa di cui parliamo con il primo venuto che ci telefona dall’America.»
Appoggia il bicchiere che teneva tra le mani tremanti, su un cassetto poco distante, per concentrare il suo sguardo su quella collana, senza sapere esattamente cosa dire.
«Ho così tante domande..» Si lascia sfuggire mentre le voci e la musica dal terrazzo fanno da sottofondo festoso.
«A volte non è importante conoscere ogni dettaglio della propria storia» taglia corto Alex, invitandola a tornare in terrazzo con lui, mentre Paola imbocca già le scale. «Senno, a cosa servirebbe la fantasia, l’immaginazione? E poi, in realtà, sono le storie a trovare te, mai il contrario. Questa ti ha trovata, ed è l’ora di viversela. E tu, sei pronta?»