L’Islanda non vieterà la caccia alla balena durante l’estate del 2023 nonostante questa pratica non sia in linea con gli obiettivi dell’Animal welfare act. Il ministero per l’Alimentazione è il responsabile della regolamentazione della caccia, ma non può revocare le licenze già emesse per il 2023, nonostante un preoccupante rapporto dell’Icelandic food and veterinary authority (Mast), perché mancano le basi legali per poterlo fare. Il Mast ha reso noto che nel 2022 sono state uccise centoquarantotto balene durante la stagione della caccia, e che almeno in un quarto dei casi gli animali sono morti dopo prolungate sofferenze e ripetuti tentativi di uccisione.
Tutto ciò è avvenuto in violazione dell’Animal welfare act, che impone che le balene debbano essere uccise nel più breve tempo possibile e infliggendo loro il minimo dolore. Il rapporto del Mast, come chiarito dal ministro dell’Agricoltura e della Pesca, Svandís Svavarsdóttir, ha indicato che bisogna rivalutare la caccia alla balena e che «questa pratica dovrà essere giustificata se questo settore, che ha più a che fare con il passato, vorrà avere un futuro».
Nel febbraio 2022, la ministra della Pesca aveva annunciato uno stop alla caccia a partire dal 2024 per «motivi economici». L’estensione della fascia costiera in cui è vietato predare i cetacei ha ormai reso poco vantaggiosa questa pratica, dato che le navi devono recarsi in alto mare per portarla avanti. Due importanti ditte attive nel settore hanno inoltre chiuso i battenti nel 2020. Bisognerà vedere, ora, se le parole della ministra si tradurranno in fatti concreti, oppure se la caccia alla balena riuscirà, ancora una volta, a riprendersi come avvenuto dopo lo stop provocato dalla pandemia.
La caccia alla balena, come ricordato dal portale della Radio Svizzera Italiana, non è una pratica tradizionale per l’Islanda e la carne del cetaceo viene esportata quasi totalmente in Giappone, dove il suo consumo è molto popolare. Il piccolo quantitativo di carne che rimane in Islanda viene, invece, destinato a tre ristoranti che preparano piatti ambiti dai turisti. Si tratta di una situazione paradossale per Reykjavík, da sempre impegnata in prima linea per la tutela dei diritti ambientali in tutto il mondo e che ha deciso di puntare sul turismo ecosostenibile.
La Commissione baleniera internazionale (Cbi) ha vietato dal 1986 la caccia alla balena per ragioni commerciali ma tre Paesi al mondo, nello specifico Giappone, Islanda e Norvegia, si sono opposti alla moratoria e hanno continuato a praticarla, uccidendo ben quarantamila cetacei negli ultimi trentasette anni.
L’Unione europea, che è anche uno dei principali partner commerciali di Reykjavík, ha assunto una posizione radicalmente diversa sul tema delle balene e ha varato una serie di norme che proteggono i cetacei dalla caccia e vietano il consumo, nel territorio comunitario, di prodotti alimentari derivanti da questi animali.
Le misure, che contribuiscono a rendere più vivibile l’habitat delle balene, necessitano però della cooperazione degli Stati non membri per risultare efficaci, dato che stiamo parlando di animali migratori e che si spostano con facilità da un territorio all’altro. In passato l’Unione europea e altri Stati avevano chiesto all’Islanda di rispettare il divieto di caccia alle balene, deciso a livello internazionale, con un messaggio in cui esprimevano opposizione per la «continua e crescente caccia a fini commerciali delle balene, in particolare di balenottere comuni, e al commercio internazionale in corso» e arrivando a un boicottaggio de facto dei prodotti di Reykjavík.
I disaccordi sulla sorte dei cetacei non sono, in realtà, gli unici punti di contrasto tra Islanda e Unione europea. Gli islandesi hanno mostrato, in passato, un certo scetticismo nei confronti dell’adesione (nel 2018, secondo un sondaggio citato dalla prima ministra Jakobsdóttir, il sessanta per cento degli islandesi era contrario) e l’opinione pubblica si è spaccata, temendo la cessione della sovranità a un’organizzazione sovranazionale e le conseguenze negative per il settore ittico.
«Non abbiamo nessuna ragione plausibile per aderire. Il libero scambio con l’Ue è indubbiamente positivo per l’Islanda, portando benefici al Paese, ma sono critica nei confronti delle politiche economiche dell’Unione. La Banca centrale europea è diventata davvero forte senza essere democratica, con strategie economiche lontane dai cittadini e che hanno avuto come risultato lo sviluppo di divisioni interne», ha detto la premier Katrín Jakobsdóttir (leader di Sinistra – Movimento Verde) in un’intervista all’Eurobserver del 2018.
Il collasso del settore bancario islandese del 2008-2009, che si è trasformato in una disputa diplomatica con Paesi Bassi e Regno Unito (allora ancora dentro l’Unione), ha spento buona parte degli entusiasmi e si è tradotto in una consistente maggioranza della popolazione contraria all’adesione. La formazione, dopo le consultazioni del 2013, di un governo parzialmente euroscettico ha portato dapprima a una sospensione e poi ad un’interruzione dei negoziati con Bruxelles. Il tema ha poi perso di importanza negli anni successivi.
L’Islanda e Bruxelles sono comunque legate dall’accordo che ha dato vita, nel 1994, al Mercato unico europeo garantendo il libero spostamento di beni, merci e persone tra gli Stati contraenti. L’Unione europea è di gran lunga il primo partner commerciale dell’Islanda e Reykjavík ha inoltre aderito, nel 2001, al trattato di Schengen, abolendo così i controlli ai propri confini per i cittadini provenienti dalle altre Nazioni che ne fanno parte. Non mancano, poi, stretti legami storici, sociali e culturali tra l’Islanda e l’Ue, che garantiscono la persistenza di ottime relazioni bilaterali.