New pairing La cucina liquida, tra alchimie e libertà

Il dialogo utile tra cucina e mixology si sposa al confronto aperto tra bartender e cliente. La nuova strada dell’abbinamento passa per un bilanciamento sempre nuovo ma studiato ed equilibrato

@Gaia Menchicchi

Al tavolo 16 dell’hackathon del Gastronomika Festival, un incontro di identità ed esperienze diverse: chef, bartender, imprenditori, giornalisti e marketer. Background e mestieri differenti, ma una passione comune, quella della pairing, cioè l’uso di spiriti e cocktail come accompagnamento a portate di ogni tipo, dal momento del benvenuto al ristorante fino al dessert.

@Gaia Menchicchi

La discussione, moderata da Maria Rosaria Bruno, giornalista nel mondo Food&Beverage, è iniziata confrontandosi su cosa vogliano dire, per i protagonisti del tavolo, la mixology e il pairing. Camilla Cancellieri (ufficio marketing del gruppo San Pellegrino) ci ricorda come proprio il brand storico italiano San Pellegrino sia stato uno dei primi a mettersi in gioco ed a proporre i suoi prodotti nel concetto del pairing per i ristoranti.

La mixology viene anche chiamata la “cucina liquida” che si unisce e si interseca con la “cucina solida” quella che conosciamo tutti. Perché questa unione sia efficace, è necessaria un’intensa sinergia tra cucina e bar. Ed ecco che i protagonisti del tavolo ci raccontano di come sia indispensabile contaminare il lavoro del bar con ciò che succede in cucina e viceversa il lavoro della cucina con ciò che succede al bar. Le contaminazioni tra le due parti possono essere diverse e dipendono dall’identità del locale. I protagonisti del tavolo sono concordi nel dire che si parte spesso da cosa offre il mercato, assecondando l’offerta stagionale e l’offerta dei fornitori.

@Gaia Menchicchi

Andrea Nani, executive chef al Radisson Collection Hotel Santa Sofia a Milano, ci dice quanto sia importante puntare su un ingrediente che diventa elemento di continuità tra bar e cucina; in questo modo nel piatto possiamo trovare uno stesso elemento che verrà poi stravolto e rilavorato per diventare base per il cocktail. Lavorare sugli ingredienti vuol dire anche saperne sfruttare tutte le potenzialità, riducendo al minimo gli sprechi e applicando la propria creatività in un’ottica di economica circolare. È così che a partire da foglie di sedano, baccelli di piselli, acqua di governo della mozzarella, filamenti e semi di zucca, che normalmente andrebbero buttati, si possono ottenere sciroppi, infusioni e acidi, basi per i cocktail.

Sono sempre di più i locali che presentano un curato menu accompagnato da un altrettanto dettagliato menu di miscelazioni. Al tavolo del Festival, si discute su quanto sia indispensabile, per l’apertura di un locale simile, capire quale potrebbe essere la clientela futura, dove ci si trova e se possa essere un’apertura accolta positivamente. Sono tutti concordi nel dire che la chiave di volta per far apprezzare davvero il pairing e convincere così i clienti più restii sia comunicare in modo efficace con il cliente: far sapere quanta ricerca e quanto studio ci siano dietro a una bevuta. I protagonisti del tavolo si sono poi domandati quale possa essere il futuro del pairing. Inevitabilmente smetterà di essere la novità di trend ma entrerà a far parte della normalità. Ci si augura che venga sempre realizzato da professionisti, che sappiano puntare sulla qualità delle materie prime, mantenendo una costante ricerca personale e allo stesso tempo rimanendo adesi all’identità del locale.

@Gaia Menchicchi

Viene condivisa tanta ricerca, ad esempio, per quanto riguarda l’accompagnamento dei cocktail a dessert o formaggi. Ci sono opinioni contrastanti: c’è chi dice che i dessert possano essere accompagnati soltanto da bevute dolci (vini passiti o drink dolci) evitando abbinamenti acidi a contrasto.
Nicola Robecchi, gastronomo e co-fondatore di Wilden Herbals, propone per fine pasto infusi o cocktail poco alcolici a base di erbe. È una nuova tendenza, accolta positivamente dall’imprenditoria giovane, quella di giocare con le piante, abbassando il contenuto alcolico e il consumo di zucchero. L’uso nei cocktail di piante autoctone o locali rappresenta anche un modo di costruire uno stretto legame con il territorio dove si trova il locale.

Interessante poi scoprire come la formazione dei bartender sia molto varia: chi dopo istituti tecnici si avvicina al mondo della sala e dell’accoglienza e poi si entusiasma per le creazioni che avvengono dietro il bancone del bar. O chi nasce come appassionato creatore di pizze che poi si accende per il mondo della mixology. Si comprende come la formazione da bartender dipenda molto dai bar dove si comincia a lavorare: in Italia non esiste un percorso formativo unico. Quindi ciò che si coglie è che dipende tanto dalla curiosità di provare e soprattutto di degustare. Edris Al Malat, bar manager al Dry di Milano, ci dice come tutto dipenda dalla personale predisposizione a «Rubare il lavoro con gli occhi», nel senso di sapersi contaminare da ingredienti imprevisti, tecniche altrui e sperimentazioni impensabili.

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