Questa è una storia di palcoscenici scambiati per privé, di pesi e misure, ma soprattutto è una storia che racconta uno dei miei cliché preferiti: quando si osserva un mezzo di comunicazione e ci si trova l’indignazione d’un giustiziere, si può sempre scommettere che, a girargli intorno, dietro al giustiziere si troverà una coda di paglia grossa come un fienile.
Il prologo si svolge nel 2019. Ben quattro anni fa. Sensibilità diverse, direbbe qualcuno. Una soubrette fa un’osservazione sulle elezioni in un talk-show politico, e ovviamente i perdigiorno dei social ottemperano al loro ruolo: perdono giornate a commentare. Spesso non più quell’osservazione: se sapete come funzionano i social, sapete che essi, più che dei fatti, sono occasione di commento dell’antipatia o della simpatia dei protagonisti.
Insomma una tizia che lavora in politica fa un commento in difesa della soubrette, e quel commento viene condiviso in, immagino, molteplici consessi virtuali. Uno di questi è un gruppo di Facebook a tema politico. Il dettaglio più importante che dovete conoscere di questo gruppo è: in quel momento ha 634 iscritti.
Sotto a quel commento, scrive quello che d’ora in poi chiameremo Emerito Sconosciuto. Emerito Sconosciuto – un italiano medio cui piace tenere il tono di chi conosce il dietro le quinte delle cose – spiega a 633 sconosciuti che la tizia farebbe meglio a tacere, dato che il suo ruolo in un certo partito è dovuto solo ai favori sessuali concessi al segretario di quel partito. Copincollo uno dei deliziosi commenti d’epoca: «Siamo l’unico partito col sex scandal sopra il quintale» (l’ES dev’essere stato un bambino grasso, giacché quest’ossessione del peso altrui poi tornerà, in questo feuilleton).
Come già il commento della tizia (come qualunque cosa venga scritta sull’internet: che, tentò invano d’insegnarci “The Social Network”, «non è scritta a matita»), le carinerie dell’Emerito Sconosciuto vengono condivise chissà quante decine di volte. E non sono le uniche.
L’ES ha una certa qual tendenza alla diffamazione, e negli stessi giorni scrive davanti agli stessi 633 testimoni, a proposito d’un altro tizio anch’egli con un ruolo di partito, «il nuovo segretario regionale si è creato uno staff scegliendo tra i disperati che incontra nei sauna club che frequenta assiduamente».
Sempre negli stessi giorni, commenta sempre davanti agli stessi testimoni, 633 dei suoi più intimi amici, la foto della redazione d’un nuovo giornale: «Il sospetto che sia stata assemblata con criteri figa-oriented è venuto a non poche persone. Ho un amico che ci lavora e lo conferma, dicendo che più che una redazione è un figaio».
Non so se qualcuno dei tre oggetti delle sue garbate osservazioni abbia fatto causa per diffamazione all’ES, ma ho qui davanti le schermate della cosa più bella mai successa sull’internet. Almeno una delle tre persone diffamate dall’ES lo racconta pubblicamente, e a quel punto l’ES fa una cosa che, in un tempo prima dei social, sarebbe stata considerata una performance situazionista.
Prende l’attrezzo con cui si esprime e, coi suoi ditoni pieni di senso della realtà, digita nel solito gruppo come al solito affollato da altre 633 persone un post fatto così: «Un certo furbo tra noi ha avuto l’intelligenza di screenshottare e rendere pubblico un mio commento (immaginatevi il genere) fatto qui dentro […] Ecco, al di là della tempesta in un bicchiere d’acqua che ha generato, questa è una cosa grave e oggettivamente infame. Qui valeva la regola che what happens in Vegas stays in Vegas […]». Seguono, nei commenti, moltissimi annunci di querele, che fanno moltissimo ridere, ma poi ci torniamo, perché prima dobbiamo avanzare velocemente di quattro anni.
Qualche settimana fa un pubblicitario rivela una imbarazzante storia che riguarda un’agenzia milanese, la riassumo per la parte che ci interessa per capire come funziona la confusione tra conversazioni pubbliche e private.
In questa agenzia ci sarebbe stata, raccontano, una chat con ottanta iscritti, tutti e ottanta maschi, che lavoravano per l’agenzia. In questa chat si facevano commenti grevi sulle femmine dell’agenzia: a questa le farei questo e quello, a quell’altra no perché è un cesso – la solita roba che i limiti del femminismo contemporaneo spacciano per umiliazione delle donne invece che per quello che è: uomini che si coprono di ridicolo. (Nessuno è ancora mai riuscito a spiegarmi perché, se un uomo si esprime come un troglodita sul mio conto, a sentirmi umiliata dovrei essere io e non i suoi genitori, la sua maestra elementare, lui stesso).
Negli ultimi giorni questa storia è stata raccontata come una storia di «molestie», e io temo si debba trovare una parola nuova, da «maleducazione» in su: è molestia se mi disturbi, ma se neppure so che mi dai del cesso o fantastichi d’ingropparmi come faccio a ritenermi molestata? Lo so, ora vi arenate qui e correte a scrivere agli amici che condono le molestie, ma sappiate che se differite di due minuti l’urgenza di darmi della sessista potete evitare di perdervi la chiusura del cerchio.
Qual è la ragione per cui la storia dei pubblicitari ci scandalizza? Il fatto che quello sia un luogo di lavoro, eppure dai toni riferiti ci manca poco qualcuno dica «più che un ufficio è un figaio». La crudezza di frasi particolarmente imbecilli (quello che avrebbe scritto di volersi scopare una mentre abortiva ha evidentemente un’idea assai vaga dell’anatomia umana e di come sia fatto un raschiamento).
Ma anche il fatto che percepiamo un gruppo di ottanta persone come quel che è: un comizio, non una conversazione privata. E qui i più svegli di voi sono già lì che applicano schemi deduttivi: se sei in pubblico tra ottanta persone, figurarsi tra seicento.
La storia raccontata dal pubblicitario è rimasta marginale finché i giornalisti italiani, per cui esiste solo ciò che passa su Twitter, non l’hanno vista rilanciata proprio sul loro social di riferimento. Da qualcuno smanioso di collocarsi come uno dei buoni e degli indignati. Chi? I lettori di Agatha Christie l’hanno già indovinato: l’Emerito Sconosciuto. Di quel che accade nei gruppi da seicento persone guai a far la spia fuori dai gruppi da seicento persone, ma se racconti d’una chat da ottanta sei benemerito.
Non so che cosa faccia l’ES nella vita, e non so cos’abbia fatto in questi quattro anni, in cui mi è passato virtualmente davanti solo una volta. Qualche mese fa ha scritto una lettera a un giornale, contro il body shaming. Ne ho approfittato per andare a ripescare una schermata del 2015 (fare i moralizzatori viene meglio se hai più archivio che coda di paglia).
Qualcuno aveva scritto che comparivo nel film della Archibugi, il nostro gentiluomo di riferimento rispondeva «magari hanno inquadrato un elefante e si è confuso». Quando ripubblico il suo antico commento, qualcuno gliene fa presente la delizia, e il nostro eroe risponde: «In un contesto in cui produciamo ogni anno milioni di caratteri leggibili in pubblico è facile scavare nel passato e trovare qualche passo falso […] la lingua rispettosa è diventata fondamentale in tempi recenti, con nuove sensibilità».
Quindi, se ho capito bene: i commenti social leggibili in pubblico possono contenere «passi falsi», l’importante è non passofalsare – cioè: non dare della culona a qualcuna – nelle chat teoricamente private; e poi va tenuto conto della tempistica: che tua madre fa pompini ai soldati è una cosa che si poteva dire fino a data da definirsi – fino alla pandemia? fino alla Brexit? fino all’uscita del sesto Mission: Impossible? – poi è arrivata la lingua rispettosa (con salsa verde).
Ora, il nostro Emerito Sconosciuto non è certo il primo moralizzatore con coda di paglia della recente storia italiana, e oltretutto è quello più d’insuccesso, e accanirsi su di lui sarebbe crudele. Ben altre fortune ha fatto gente che mandava in giro foto di cazzo non richieste mentre per mestiere stigmatizzava presunte molestie altrui, per fare un esempio totalmente di fantasia.
Ma quel che mi pare interessante notare sta nel pezzo di storia del 2019 che non vi ho ancora raccontato. Uno dei danni che ha causato la comunicazione social è rendere la media degli umani totalmente disarmata in termini di dialettica. Sui social (e sempre più spesso anche nella vita) gli esseri umani non sanno più dire a uno con cui sono in rapporti amichevoli «ma non dire scemenze». Esistono solo tizi antipatici cui diamo addosso per principio (in neolingua: hater); e tizi che invece abbiamo deciso di trovare simpatici e ai quali perciò diamo ragione sempre e comunque (in neolingua: genio).
Quindi, quando l’ES va da 633 tizi a dire che lascia il gruppo, perché è gravissimo che qualcuno abbia notificato una diffamazione ai diffamati, e che è già andato dall’avvocato a denunziare chi ha fatto trapelare gli screenshot, «Diciamo che il suddetto mi pagherà le ferie. Ed è solo l’inizio»; quando scrive di chi ha svelato le sue diffamazioni «sì, è perseguibile legalmente»; quando scrive che bisogna «essere scemi, ché si sa che sono uno con la querela facile» – quando si copre per decine di volte di ridicolo con penzierini in cui s’atteggia lui a parte lesa, non c’è uno che pietosamente gli dica: ma Emerito, ma ringrazia se non sono loro a fare causa a te, ma evita di investire capponi in avvocati per il reato di screenshot quando hai scritto di questa gente delle cose tali che finisci per doverle pagare degli appartamenti.
Non uno, non dico per dire. Lo assecondano tutti ma proprio tutti, dicendo che è scandaloso, che è uno schifo, che chi fa la spia non è figlio di Maria. E quindi la domanda con cui concluderei questo apologo reputazionale è: ma, se degli sconosciuti non hanno voglia d’incomodarsi a dire a uno sconosciuto «ma quale avvocato, su, dai», perché dei colleghi dovrebbero aver voglia di dire a chi straparla di sesso e di donne «ma lo sappiamo tutti che non ti tira, orsù, piantala con ’ste pagliacciate»?