Quando Silvio Berlusconi promise che saremmo entrati nella modernità con internet, inglese, e impresa, io avevo una trentina d’anni e il piccolo mondo antico mi andava benissimo, coi suoi intrattenimenti zitellocentrici che partivano da Jane Austen, passavano per Helen Fielding, e arrivavano a “Sex and the city”, che all’epoca mi sembrava – a me, e a quelle che come me avevano trenta stupidissimi anni – interessantissimo.
Non immaginavo che, vent’anni dopo, saremmo approdate alla terza “i” di Sarah Jessica Parker e delle amiche sue. Le quali, smesso da ere geologiche d’essere interessanti, e superata anche la fase in cui sono state inutili, ora sono imbarazzanti come uno zio ubriaco al pranzo di Natale.
Della nuova stagione di “And just like that”, che è su Sky e Now da domani, ho avuto la forza di vedere una sola puntata. Se fossi spagnola direi che per i quasi quarantaquattro minuti della visione ho provato vergüenza ajena. Se fossi tedesca invocherei la fremdschämen. Se fossi una cinquantenne italiana che si finge giovane direi: cringe.
A volte persino una lingua povera come l’italiano può bastare a dire il banale imbarazzo di queste vegliarde con ancora tutto o quasi tutto da dimostrare: che sono spiritose, che sono toniche, che sono eleganti, che sono arrapate, che sono a loro agio in un mondo in cui non possono dire d’essere diventare lesbiche perché la tizia cui la leccano non usa pronomi femminili.
C’è una scena in cui Charlotte si presenta alla porta di Carrie al mattino. Voi direte: ma chi è che si presenta alla porta di qualcuno nel 2023, cos’è, una serie in costume ambientata negli anni dei telefoni a disco? E io vi dico no, non lo è, e lo sappiamo perché Charlotte le si presenta alla porta per farle vedere il bozzetto del vestito che metterà al Met Ball, bozzetto che ovviamente le è arrivato sul cellulare. Ma lei mica lo inoltra all’amica, no: lei esce di casa e attraversa la città per farle vedere un disegno sullo schermo d’un telefono.
Poco dopo – il tempo per Charlotte di vedere che a casa di Carrie c’è un tizio che s’è scopata, e di trasecolare come il contesto fosse un convento di monache di clausura e non una serie televisiva che da venticinque anni ha come principale svincolo narrativo lo scoparsi tizi; il tempo per Carrie di preparare un uovo poché, una cosa su cui ci toccherà tornare – e le due escono.
Carrie, nel frattempo, si è vestita, per uscire a prendere un caffè al mattino, da merenda alle Dodici querce.
E quindi non si capisce che senso abbia l’escamotage narrativo del Met Ball, che deve solo servire a fare ciò che ha sempre fatto “Sex and the city” (oltre che a sfinirci di vite sentimentali), e cioè a farle vestire come delle modaiole (il pubblico normale direbbe: come delle pazze). A che serve, se Carrie comunque si veste da modaiola estrema anche per andare a comprare le uova. Che me ne faccio di quel personaggio che, andando al Met Ball, risponde stizzita al marito che le dice appunto che è vestita come una pazza «It’s not crazy: it’s Valentino», se i vestiti da baraccone queste tizie se li mettono senza pretesti.
La settimana scorsa stavo decidendo cosa mettermi a una cena. Ho pensato: ma forse potrei abbinare al vestito che ho scelto queste scarpe verdi stupende. Erano delle scarpe disegnate, negli anni in cui “Sex and the city” era interessante, da Tom Ford per Gucci, e io le avevo comprate e mai messe. Sono magnifiche, di seta verde, col tacco di bambù. Ho detto: fammele provare. E dopo trenta secondi le ho tolte, quando mi sono resa conto che non riuscivo a camminare neanche dalla poltrona allo specchio.
Alla cena ci sono andata in All Star, e ho parlato a lungo con un’amica di come, dice lei, la pandemia ci ha tolto la capacità di camminare coi tacchi. La mia versione dei fatti è più estremista: io i tacchi li ho tolti molto prima della pandemia, io a un certo punto ho semplicemente deciso che non ero più così giovane e scema da scegliere di stare scomoda.
Ricordo un disperatissimo editoriale d’una direttrice di femminile, nel 2020, dopo un paio di mesi di pandemia. Diceva qualcosa tipo: ah, finalmente, torna la moda, non ne possiamo più di tute. Quel che stava dicendo era: vi prego, stilisti, tornate a fare pubblicità, sennò dobbiamo tutti chiudere. Ma io – che come tutte quelle che hanno provato una volta i pantaloni con l’elastico (i primi furono di Lanvin, degli anni di Alber Elbaz, colui che meglio ci ha capite nella storia della moda) non sono mai più tornata indietro a star scomoda con le lampo e i bottoni – ogni tanto ancora ripenso a quell’editoriale e rido forte.
La prima scena della nuova stagione di “And just like that” mostra questa sleppa di vegliarde disperate che entrano ognuna nella stanza in cui c’è l’amante vestite da pantere da materasso, e una le vede e ride forte e pensa: ma avete sessant’anni, ma cosa diavolo ci fatte in sottovesti di satin, ma non ce l’avete una maglietta slabbrata, ma ancora pensate che per scopare si debba somigliare a una réclame di Victoria’s secret, ma non crescete mai?
Invecchiare senza crescere è in fondo la grande sinossi di queste disperate che da quando avevamo trent’anni (noi davvero e loro teoricamente, sebbene le attrici ne avessero già quaranta) cercano di convincerci che sia normale e anzi auspicabile investire nelle proprie vite sentimentali il tempo e la concentrazione che è sensato dedicare a queste cose a sedici (cioè: quando non hai altro).
E infatti nessuna ha una carriera. L’unica che ce l’aveva, Miranda, l’ha mollata per trasferirsi dall’altra parte degli Stati Uniti ad aspettare a casa una fidanzata senza pronomi femminili alla quale fa sorprese sul posto di lavoro come le mogli annoiate degli anni Cinquanta.
Ah no, avrebbe una carriera anche quella in quota colorate (“Sex and the city” ha passato gli anni passati a scusarsi d’essere stato nella sua fase interessante troppo bianco, e quindi per la fase imbarazzante s’è procurato due attrici che fornissero una quota di multirazzialità e rassicurassero il pubblico: esistono donne sceme di tutti i colori). Però la carriera è uno sfondo: una mail che la povera vegliarda in Valentino cerca di mandare mentre il marito pretende una sveltina prima del Met Ball e la figlia vuole ripeterle la poesia per l’interrogazione di francese.
Tuttavia il dettaglio che mi ha più fatto sentire in imbarazzo per tutti loro, sceneggiatori che scrivono assurdità e attrici e produttrici che non glielo fanno notare, è l’uovo. Carrie è a letto con uno che guarda i programmi di cucina in streaming, e si fa venire i complessi perché non cucina.
Hai sessant’anni, un guardaroba scomodissimo ma pazzesco, una carriera inesistente ma prestigiosa, un carattere si spera formato da ormai alcuni decenni, e ti fai venire i complessi di non casalinghitudine?
Si mette a fare l’uovo poché, oltretutto: una roba difficilissima persino se fai le uova di mestiere (martedì mattina, in un albergo milanese anche bello, me le hanno portate che erano ormai sode: l’uovo poché è un lavoro di precisione, mica una roba che ti alzi dal letto e guardi un tutorial).
Ogni pazienza incontra prima o poi il proprio limite. Io avevo superato la sedicennitudine sentimentale di sessantenni che si disperano chiedendosi «oddio, non è che pronomineutri mi vorrà solo per il sesso?»; la ventennitudine con cui le sessantenni sono perennemente arrapate; la trentennitudine con cui le sessantenni si vestono programmaticamente scomode.
Ho perso la pazienza con l’uovo, perché una storia che dovrebbe essere empowering e tutti gli altri vacui aggettivi che si usano per dire dalla-parte-delle-donne dice invece alle donne che neanche a sessant’anni sapranno abbastanza chi sono da non andare in crisi se dal loro letto passa uno che guarda “Masterchef”, e loro sono tizie che il forno lo usano come scaffale per le borse.
Invecchierai senza crescere, resterai smaniosa in eterno, e non avrai mai una personalità meno traballante d’una ricotta: forse “Sex and the city” serve a guardarle e sentirci migliori, o più probabilmente non serve più a niente da troppissimo tempo.
Nell’inviare cortesemente le puntate in anteprima, da Sky si raccomandano di scrivere che lo mandano in onda loro (conoscono l’attenzione media del pubblico, che lo cercherà ancora su Telemontecarlo introdotto da Anna Pettinelli). Aggiungerei: una volta che avrete aperto la app di Sky o quella di Now, scartate le vegliarde smaniose, e iniziate a rivedere “Succession”. Non ve ne imbarazzerete, non ve ne annoierete, e neanche dovrete imparare a cucinare.