Indignazione perpetuaIl Truman Show giustizialista del tribunale popolare dell’Internet

L’incidente a Casal Palocco ha scatenato una forte reazione. E mentre si richiedono nuove leggi che limitino l’uso delle piattaforme, la gogna digitale ha già condannato i due accusati senza che un regolare processo ne abbia accertato la responsabilità

Lapresse

Un Paese dove la forca mediatica si sostituisce alla giustizia penale. Un Paese dove si condanna aprioristicamente la cultura del social, ma ne si mutua il modello, emettendo sentenze sommarie con la velocità di un like o di un tweet. Un Paese dove si confonde il giudice delle indagini preliminari con un conduttore televisivo. E in cui ognuno di noi domani può trovarsi protagonista del Truman Show giustizialista a reti unificate.

L’incidente di Casal Palocco ha scosso la coscienza di tutti, con la plasticità dell’innocenza e della colpevolezza esteticamente rappresentante dalle due parti in causa. Da un lato una madre a bordo della sua automobile con due bimbi a bordo, uno dei quali resta vittima dell’incidente. Dall’altro i mostri per definizione: alcuni ragazzi intenti a realizzare un video per il loro canale YouTube, TheBorderline, nel quale si cimentavano nella sfida di restare su una Lamborghini per cinquanta ore di fila.

Come sottolinea Alessandro Luna de Il Foglio, il fatto ha la peculiarità di coinvolgere una serie di elementi e terminologie che in Italia appartengono ormai al campo semantico dell’indignazione generale. Si tratta di veri e propri topoi del pregiudizio generazionale: dal termine youtuber, che qualifica una professione intrinsecamente urticante per chi non è avvezzo al mondo della creazione di contenuti online, passando all’espressione challenge. Così anche molti titoli di giornale lascerebbero intendere proprio che una spericolata challenge avrebbe indotto questi ragazzi a schiantarsi contro la smart.

Ma mentre se ne discute pubblicamente, la dinamica rimane tutta da accertare. Inoltre, dai titoli dei precedenti lavori dei TheBorderline si può notare come i contenuti del canale siano tutt’altro che violenti: “24 ore sulla mini zattera”, “Nascondino al luna park per 1000€”, “24h sulla ruota panoramica senza scendere”. Anche nei video realizzati in auto si nota come la stragrande maggioranza delle riprese siano svolte in momenti di sosta.

C’è chi, come Adinolfi e Giubilei, ha posto l’attenzione sulla non negatività alla cannabis – altra parola chiave nel creare clamore – risultata in Matteo Di Pietro, che era alla guida della Lamborghini. Eppure, non risulta quanto tempo prima di mettersi alla guida ne avrebbe fatto uso, poiché la sostanza resta presente nel sangue del soggetto anche dopo giorni, senza che questo necessariamente ne comprometta le capacità psicofisiche.

La gogna non si placa nemmeno prima degli accertamenti ed è seguita dalla consueta shitstorm sui social, con insulti riservati persino ai genitori, minacce di morte e condanne in diretta tv. Una reazione scomposta e aggressiva del pubblico, parte di uno schema ormai consolidato nel quale la massa finisce nella trappola della lapidazione pubblica. I giusti del web e i magistrati televisivi non si curano del fatto che per giorni si è discusso senza sapere, ad esempio, chi avrebbe avuto la precedenza e quale fosse la velocità delle auto.

E così il grande nemico diventano non solo i soggetti coinvolti, ma le piattaforme social stesse, secondo l’accusa pericolose in quanto accessibili anche ai giovanissimi e poco regolamentate. La realtà, naturalmente, è ben diversa.

Scostato il velo dello scandalo, emerge infatti che non siamo davanti ad alcuna epidemia di challenge violente. Anzi, YouTube, come la maggior parte delle altre piattaforme, per tutelare la propria reputazione e garantire la migliore esperienza possibile all’utente, si è dotato da tempo di un contesto di regole piuttosto stringenti che, in caso di violazioni, possono comportare anche la cancellazione dei contenuti o del canale. Non a caso in tutti i video dei TheBorderline è stata già rimossa la pubblicità, negando così la possibilità di guadagnare dai contenuti – quello che viene definito “demonetizzare” – senza la necessità di nessuna nuova legge.

Tra chi si è esposto sulla vicenda c’è stato anche l’attore Alessandro Gassman – salvo poi scusarsi – chiedendo una legge che vieti di guadagnare da YouTube e costringa chi posta a «mettere sempre faccia e indirizzo mail». Ma non permettere più di guadagnare tramite un sito perché dei creatori di contenuti potrebbero aver commesso un reato mentre stavano preparando un video sarebbe come vietare l’uso dei coltelli nella ristorazione perché è avvenuto un accoltellamento. Tra l’altro, risulta molto difficile pensare di aumentare le regolamentazioni quando esistono sistemi come le VPN capaci di eludere eventuali blocchi nazionali.

La strada maestra dovrebbe invece rimanere quella di educare e sensibilizzare in merito al corretto utilizzo di queste piattaforme, senza proibizionismi inutili e divieti non applicabili. YouTube è già oggi il luogo dove milioni di giovani si informano, anche tramite creatori di contenuti professionali, da Alessandro Masala a Ivan Grieco, che nei propri video ospitano i più noti giornalisti e politici italiani.

Fermandosi agli stereotipi non si comprende che quello di chi crea contenuti sul web è un lavoro a tutti gli effetti, non un hobby di giovani scansafatiche. Influencer e creatori di contenuti non andrebbero pertanto puniti, ma anzi giuridicamente riconosciuti.

Per accontentare l’ondata inaudita di violenza scatenata da questa tragedia, il governo starebbe pensando invece a una «stretta sugli YouTuber» per punire chi «istiga alla violenza» sui social con una pena fino a cinque anni. Il provvedimento potrebbe essere inserito nella legge «anti baby gang» voluta da Matteo Salvini. Peccato che le norme per condannare eventuali comportamenti scorretti che coinvolgono anche i social siano già in vigore.

Assistiamo oggi così a una curiosa inversione tra causa e effetto delle leggi penali, oltre che ad una certa confusione circa il ruolo svolto dal legislatore, che non si occupa più di partorire nuove disposizioni generali atte a prevenire il verificarsi di situazioni delittuose, bensì interviene per reagire a situazioni sì delittuose, ma spesso molto particolari e già avvenute. Si tratta di un fraintendimento enorme che rischia di incrementare l’inflazione penale che in questo paese si è cercato, invano, di arginare con le depenalizzazioni ma che, negli ultimi anni, sta riprendendo piede a causa delle aspirazioni punitive di maggioranze sempre più giustizialiste. Ad ogni nuova tragedia la politica è pronta a sfornare un nuovo reato.

I TheBorderline sono innocenti? Sì, fino a prova contraria. Sono le sentenze, quelle nelle aule dei tribunali, che decretano la colpevolezza. Quelle in piazza e sulla rete distruggono le vite e la dignità delle persone. Ai giusti del web e ai magistrati della tv, però, il verdetto non interessa e quasi non ne daranno notizia, impegnati già nell’allestimento del prossimo Truman Show.

X