La TrappolaIl filo rosso che lega le banlieues parigine e l’hinterland milanese

Il regista Giacomo Miraldi racconta a Linkiesta Etc il suo ultimo cortometraggio, in cui l’elemento poetico si fonde con quello neorealista grazie alla cultura underground e a un mélange di dialetti, storie, sogni e paure

Courtesy of Q3T

Giacomo Miraldi, in arte 18CARATI, è un regista dell’hinterland milanese, precisamente di Cernusco Sul Naviglio. È proprio qui, nel quartiere Tre Torri, che ha iniziato la sua carriera da regista, documentando giorno dopo giorno ciò che lo circonda.

La Trappola è un cortometraggio unico: la storia è il sequel dell’opera prima del regista, intitolata La Tela. In La Trappola il protagonista è Andrea. Il ragazzo, pugile promettente, ha più di vent’anni, la testa sulle spalle ed è consapevole delle sue azioni. Nel quartiere filtra un clima di tensione, dove si riconosce la classica periferia di Milano in tutta la sua autenticità. 

Qui le tentazioni negative sono dietro all’angolo, ma fanno parte della poesia del borgo. Tra le palazzine sono intelligibili messaggi di unione e forza. Il quartiere è una trappola dove soldi facili e amore convivono insieme, ma dove si percepisce dietro a ogni angolo un grande senso di comunità. Il sentimento nel quartiere è infiammato con diversi tipi di energie: dalla commozione alla cattiveria. 

Un giorno Andrea riceve una lettera da un suo caro amico che oramai non vede da tempo. A quel punto, capisce che gli rimane un ultimo disperato tentativo per salvarlo, e quindi è costretto a trasferirsi nel ghetto di Parigi. Solo lì, infatti, può contrattare con i presunti rapitori. Questo cambiamento che lo porta nella capitale francese gli fa conoscere le inaccessibili e pericolose banlieue, ossia l’area periferica della città 

All’interno del corto ci sono noti rapper italiani e francesi come Villa Banks, Boro Boro, Neves e Ashe22. Dal cast alla musica, La Trappola documenta il ghetto per come è, senza esclusione di colpi, raccontando ciò che non è accessibile a tutti. La sequenza di immagini è dinamica e vivida, frutto dell’estetica senza filtro e underground delle scene. Le storie delle vite degli attori stessi sono particolari e culturalmente diacrone alla pletora di esperienze di molti. 

In La Trappola la presenza di situazioni domestiche e familiari richiama l’estetica neorealista. Quello che all’apparenza è un momento di quotidianità qualunque, come la scena del cous cous al ristorante, in realtà ha un ampio margine interpretativo. Infatti, si percepisce un avvicinamento fra due anime durante un potenziale ultimo pasto insieme. È la prova che riesci a fondere l’elemento poetico con quello neorealista. Come avviene questo incontro nel cortometraggio?
«Il momento del cous cous che hai appena citato non è un fermo immagine qualunque. C’è altro che si può dedurre: a partire dal sorriso, luminoso come un fulmine, della ragazza e dell’espressività fumeggiante del ragazzo. Dietro quella che sembrerebbe una scena di quotidianità qualunque si celano una serie di racconti presentati in un formato ermetico, ma allo stesso tempo fortemente evocativo. E così parla il mio cinema, forte e lento, incisivo e delicato allo stesso tempo, quasi al punto di non distinguere il mood vero e proprio di un momento, ma che affascina data l’estetica dei silenzi e dei dialoghi». 

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In La Trappola si discerne un fil rouge che regge su una domanda: quanto si è disposti a proteggere chi si ama? Nella vita di quartiere mollare tutto e tutti può consentire di fare gli interessi propri e uscire, seppur egoisticamente, da una situazione scomoda. Verrebbe da dire che La Trappola è anche una trappola emotiva. È così? 
«La trappola emotiva che si cela dentro Andrea è la metafora del film. I ragazzi di oggi che vivono nelle periferie sono intrappolati nel quartiere stesso. Ho sentito il bisogno di scrivere questa sceneggiatura per dargli un esempio in cui credere, per spronare i giovani ad uscire dalla realtà di strada e cercare un futuro migliore. A volte è inevitabile muovere passi pericolosi, ma lasciare alle spalle il proprio passato e iniziare da capo guardandosi dentro da un’altra prospettiva può migliorare la vita». 

L’interculturalità e il multietnicismo contribuiscono a generare gran parte del carburante di questo film. Nel corto c’è un mélange di dialetti marocchini, francesi, albanesi, napoletani, con terminologie più propriamente di strada. Quale metodo hai adottato per affrontare questa sfida linguistica?
«Con il tempo, ho compreso come non ci sia bisogno di conoscere la lingua, basta veramente che gli attori ripetano a memoria il dialogo mantenendo a grandi linee la struttura. È tutto un gioco di suoni, una volta che riesci ad associare quel suono alla parola, in fase di montaggio puoi tagliare dove vuoi, senza problemi. Riportando all’interno delle scene le sfumature linguistiche che trafilano nella comunità che scelgo di immortalare, ricambio l’impegno e la ospitalità che gli attori e le famiglie offrono. Una volta arrivato a Parigi dormì a casa del protagonista, non sapevo che non parlava minimamente il francese e soprattutto l’inglese, conosceva l’arabo ma io non sapevo nemmeno una parola. L’unico che avevamo di comunicare era Google translate, scrissi la sceneggiatura i primi due giorni di viaggio, dormivo da loro, mi offrirono Thé Marocchino e carne Halal». 

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C’è una scena in La Trappola che riguarda i tarocchi, che rende l’idea di come gli oggetti di culto abbiano un fascino quasi evergreen. Che significato hanno i tarocchi? Qual è il legame tra le generazioni passate e quelle di oggi?
«Parto dalla seconda domanda. In La Trappola il legame tra Mustafa e il nipote Andrea è la conferma di un linguaggio di strada a lungo termine che è valido per entrambe le generazioni. Infatti, l’immaginario della giovinezza di Mustafa si conserva nella dimensione adolescenziale del protagonista. Certi gesti, atteggiamenti e riflessioni relative alle vita di strada non sono mai fuori moda, come d’altronde i tarocchi. Questi ultimi non solo seducono i ragazzi nel film, ma anticipano alcuni eventi e perseguita il protagonista: Andrea troverà nella mazzetta di soldi la sua via d’uscita dalla Trappola, la carta della morte. Questa scena è molto evocativa. Sembra dire: Il futuro, dentro al ghetto, ha una sola faccia».

Perché hai deciso di girare questo cortometraggio? C’è una motivazione personale?
«Da piccolo sono cresciuto apprezzando gli sconfinati collegamenti tra musica di strada e il cinema. Diventando adulto ho visto tanti amici allontanarsi da me e prendere strade diverse, senza una motivazione vera e propria, ma semplicemente perché avevo ambizioni differenti. Credo che tutti si potessero riconoscere in una storia del genere. Tutti abbiamo perso amici, è universale. Per questo ho scelto due protagonisti che rappresentano due realtà differenti: il ragazzo dedito al lavoro e famiglia, con attenzione al proprio futuro, e il ragazzo di strada, che cerca emozioni forti e vive alla giornata senza pensare a come andrà domani. Il mio intento è quello di comunicare la direzione giusta da prendere, in modo da allontanare i ragazzi da tutto ciò che ora li circonda nell’ambiente musicale, una realtà di strada esasperata e senza futuro. In questo quartiere grigio c’è un centro aggregazione giovanile che aiuta i più giovani trasmettendogli insegnamenti fondamentali e dandogli speranza. Grazie al C.A.G abbiamo potuto presentare il film al Comune di Cernusco Sul Naviglio, che ci ha dato a disposizione la sala proiezione della Casa delle belle arti dove abbiamo potuto mostrare il nostro film a più di duecentotrenta invitati».