La venerata stronzaFran Lebowitz e l’arte di dosare il disprezzo per continuare a fatturare

Lezioni di vita da una serata milanese con la più grande scrittrice non scrivente che risponde a domande sceme senza imbarazzo

Fran Lebowitz
Foto di Lucas Possiede

Le due grandi lezioni che s’imparano andando a vedere Fran Lebowitz su un palcoscenico milanese non sono diverse da quelle che, facendo attenzione, era già possibile imparare guardando “Pretend it’s a city”, il documentario a puntate che Martin Scorsese ha girato su di lei per Netflix nel 2020, e “Public speaking”, quello che sempre Scorsese aveva girato per Hbo, migliore perché risalente a prima che diventasse di moda far tutto a puntate.

La prima lezione è: non fate i brillanti gratis. Se Fran Lebowitz avesse Twitter, le sarebbe toccato trovarsi un lavoro. Invece (se vi sembra di avermelo già sentito dire, sì: l’avevo già scritto recensendo “Pretend it’s a city”) può salire su un palco e, davanti a un pubblico pagante, dire le frasette spiritose che noialtri – che da grandi volevamo fare gli intellettuali brillanti ma poi abbiamo comprato un telefono moderno – twittiamo gratis.

(Fran Lebowitz, lo sa anche chi non sa chi sia, non ha un cellulare, non ha un computer, non sa cosa siano i social, o meglio lo sa e perciò se ne tiene lontana, e l’altra sera a Milano ha detto che la ragione del successo di “Pretend it’s a city” è che c’era la pandemia e quindi tutti stavano a casa a guardare Netflix, «la guardavano tutti tranne me»).

Quindi Fran arriva, coi jeans che sono gli unici jeans che mette, e gli stivali che sono gli unici stivali che mette, si siede, e dice che certo che non aveva capito che avrebbe vinto Trump, lei vedeva com’era considerato a New York, «immagina essere d’un livello morale così infimo che i palazzinari newyorkesi ti guardano con sussiego», e che Biden è troppo vecchio per guidare la macchina e come si fa a pensare di rieleggerlo, «ma la cosa buona è che il presidente non può guidare, almeno togliamo un anziano dalle strade», e che i newyorkesi «pensano di possedere cose che non hanno neppure in affitto», entrano nei ristoranti e si straniscono se c’è già qualcuno seduto a quello che ritengono essere il loro tavolo.

Dice che per le domande non bisogna dare al pubblico il microfono, perché se glielo dai quelli mica ti fanno domande, danno risposte; che «la controcultura degli anni Sessanta è diventata i banchieri degli anni Ottanta»; che gli altri quando muoiono i genitori ereditano appartamenti, «mio padre è morto: mi ha lasciato mia madre».

Sta seduta lì, fa conversazione come la si faceva nei secoli in cui esisteva la civiltà della conversazione e ci si preoccupava d’essere brillanti e interessanti, e fattura. Noialtri twitteremmo pagati in cuoricini e proprio non riusciamo a capire cos’abbia lei che noi no. Chissà quanto le facciamo pena.

Non glielo chiedo. Non glielo chiedo alla cena successiva, perché sono impegnata a ingollare tacos all’astice, e non glielo chiedo quando arriva il temibile momento delle domande dal pubblico, cioè quello in cui si chiarisce la seconda e più importante lezione lebowitziana: bisogna dosare il disprezzo, se si vuole che la propria vecchiaia di venerata stronza si mantenga redditizia.

A un certo punto una ragazza in fondo alla platea – senza microfono, come la venerata vuole – s’incarta in una incomprensibile domanda che si apre con citazione di Pirandello (l’illusione del ceto medio riflessivo che le letture obbligatorie delle scuole medie lo facciano sembrare colto non cessa di straziarmi). La domanda non viene capita, la ragazza la ripete. Non demorde, siamo al terzo tentativo. Nella fila davanti alla mia, una ragazza bisbiglia al fidanzato: ti prego, fai una domanda, sono troppo imbarazzata.

Fran no. Fran sa che la principale parte dello spettacolo di questa Corrida di Corrado (ma lei penserà all’arena coi leoni, che essendo americana avrà visto nel “Gladiatore”) è il momento in cui qualcuno viene umiliato, divorato, sacrificato allo spettacolo.

Si alza una e premette che in lei vede molto nichilismo, e dov’è il suo romanticismo. «Il romanticismo non è un’antitesi del nichilismo, tanto per cominciare». Gli americani direbbero: shade. (I più analfabeti tra gli italiani direbbero: blastata). Poi procede, come a ogni domanda, scema e meno scema, a parlare di quel che le pare.

Ha un repertorio di brillantezze (è una scrittrice che si rifiuta di scrivere, il suo lavoro è essere sagace in queste pubbliche conversazioni). C’è la storia del passeggero che muore sul Roma-Parigi, e quello di fianco a lui ha una crisi isterica e non vuole stare seduto di fianco a un cadavere, e lei si offre di fare cambio e – la battuta la vedete arrivare da un chilometro ma fa ridere lo stesso – il morto è il miglior vicino di posto che abbia mai avuto in una vita di viaggi.

C’è Martin Scorsese che la videochiama dall’Oklahoma dove sta girando “Killers of the Flower Moon”, e lei chiede cosa ci sia in Oklahoma, e lui chiede lei cosa veda dalla finestra alle spalle di lui, e lei dice niente, e lui conclude: ecco, in Oklahoma c’è questo.

C’è la volta che di notte sta costeggiando Washington Square Park, e vede avvicinarsi un colosso col collo tatuato ed è terrorizzata che lui la aggredisca, finché passa un topo e lei caccia un urlo, il tapino chiede se abbia paura dei mouses, e lei gli dice «il plurale di mouse è mice: non hai avuto una madre?».

Poco prima, l’intervistatrice le ha ripetuto due volte una domanda incomprensibile, e la ragione per cui era incomprensibile era la confusione tra always e ever: voleva chiederle se fosse sempre stata una persona dalle opinioni forti, e aveva finito per chiederle se avesse mai avuto un’opinione in vita sua. Have you ever been opinionated? Ma non si diventa la venerata stronza Fran Lebowitz senza avere un po’ d’uso di mondo, e quindi si fa ripetere la domanda e poi, prendendo atto che non abbia alcun senso sintattico, la tratta come una domanda del pubblico: si mette a parlare di quel che le pare. Ma senza redarguire l’intervistatrice come avrebbe fatto con un passante dal collo tatuato.

Né – io al posto suo l’avrei fatto – ha imposto l’aria condizionata a diciotto gradi, americana e perdipiù vestita da novembre, chissà che sofferenza; ma è rimasta educatamente sul palco e poi sul divanetto della cena a probabilmente morire di caldo, probabilmente sperando che nessuno s’accorgesse mai che è una signora dalle buone maniere che perde la pazienza solo coi turisti culturali e finisse per approfittarsene.

Però a un certo punto ha raccontato la giornata passata sul set di “The Wolf of Wall Street”, interpretava il ruolo d’un giudice e non sapeva niente e non capiva niente e stava facendo perdere tempo a centinaia di persone su quel set e «il rumore che si sentiva era quello dei milioni di dollari buttati».

Mesi dopo, dice, ha incontrato Thelma Schoonmaker, la montatrice di Scorsese, che le ha detto ah guarda ho giusto montato oggi la tua scena. E lei, riferisce, si era profusa in scuse, infierendo sul proprio essere stata una cagna. E a quel punto l’intervistatrice, non vedendo ever arrivare la punchline, la interrompe, e non solo la interrompe: la rassicura. Non è vero, eri bravissima. Come fosse una vezzosa signorina seduttiva, e non una venerata stronza. È l’unica volta in cui Fran la guarda col sussiego con cui gli altri palazzinari guardavano Trump: fammi finire.

La punchline suonerà familiare a chiunque conosca un po’ la Schoonmaker, una che dice «i film di Marty non sono violenti finché non li monto io». La storia finisce con Fran che dice «Lo so, sono pessima», e Thelma che risponde «Ora non lo sei più». Pensa che meraviglia devono essere, le conversazioni tra quelle due venerate stronze. Qualcuno ne organizzi subito una, prendo i biglietti ovunque sia.

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