Pathos logoratoL’abuso di «perdere tutto» che livella le tragedie e impigrisce l’empatia

Una narrazione giornalistica ripetitiva racconta l'alluvione in Emilia Romagna, omogeneizzando le storie e i vissuti individuali di chi ne è stato colpito

Lapresse

Più o meno, la scena è questa: Piemonte, novembre 1994, nella valle del Tanaro, sommersa dal fiume esondato dopo tre giorni di pioggia, un gommone a remi si avvicina al tetto di una cascina che affiora dall’acqua. A bordo, oltre al rematore, una giornalista del tg regionale accompagnata dall’operatore. Abbarbicati al tetto, gli abitanti della cascina in attesa che qualcuno li porti via (la troupe è stata più rapida dei soccorritori). La giornalista “gommone veloce” porge il microfono a una donna, e con il microfono la domanda assassina, che più che una domanda è una constatazione. Tono condolente (vagamente iettatorio), forte accento piemontese: «Eh… avete perso tutto, eh…?».

La risposta non la ricordo, non importa, a me piace immaginare che la poveretta abbia perso anche le staffe e sia esplosa: «Ma va…!».  (In ogni caso, voglio rassicurare: la giornalista è poi tornata alla base sana e salva, l’ho ancora vista per molti anni in televisione).

La scena mi è tornata in mente durante la recente alluvione in Emilia-Romagna, sull’onda del refrain ascoltato e letto in quei giorni drammatici: «hai/ha/avete/hanno perso tutto», ripetuto con enfatico, quasi compiaciuto accanimento (beninteso: compiaciuto per l’“originalità” dell’enfasi, non per il fatto enfatizzato). Fino a cristallizzarsi nella lugubre formula – generalmente preceduta dalle preposizioni a, di, per – «chi ha perso tutto».

«Il dramma di chi ha perso tutto». «La disperazione di chi ha perso tutto». «Il racconto di chi ha perso tutto». «La drammatica testimonianza di chi ha perso tutto». «Un pensiero per chi ha perso tutto». «Un sostegno concreto a chi ha perso tutto». «Una casa e un lavoro per chi ha perso tutto». «Gli psicologi assistono chi ha perso tutto». E si potrebbe continuare, perdendosi nella rete.

Se si imposta «chi ha perso tutto» come stringa di ricerca su Google, si ottiene un numero esorbitante di occorrenze: io ne ho trovate centosessanta mila martedì, 162 mila mercoledì, 163 mila giovedì, e così via. L’incremento si riduce di intensità a mano a mano che scende, con il livello dell’acqua, l’attenzione mediatica per la situazione nelle zone colpite; ma nel frattempo nell’immaginario linguistico si è consolidato il nuovo soggetto collettivo, la parola polirematica che si potrebbe scrivere con i trattini: «chi-ha-perso-tutto».

Centosessantamila e più occorrenze sono grazie al cielo (anzi, al cielo no: è dal cielo che è venuto il flagello) un numero molto superiore a quello di «chi-ha-perso-tutto». Senza poi considerare che non tutti quelli che hanno perso hanno perso davvero tutto: c’è chi ha perso il raccolto, la merce che aveva in negozio, quello che aveva in casa, la bici, il motorino, l’automobile; ma i muri sono rimasti in piedi, i risparmi in banca – piccoli o più consistenti – sono disponibili, unitamente ai fondi dell’intervento pubblico e della mobilitazione privata – per affrontare la ricostruzione che questa gente tenace saprà affrontare, e per fortuna le perdite umane sono state limitate.

Non si tratta di negare la realtà del disastro, ma di contrastare l’appiattimento di tutte le situazioni in una anonima categoria indifferenziata che fa torto alle tragedie maggiori che purtroppo ci sono.

Perché utilizzare indistintamente, invariabilmente, torpidamente, ritritamente una locuzione logorata dall’abuso fino a perdere anche l’originario pathos, e che in questa ripetizione anestetizzata meglio si presterebbe a caratterizzare un ludopatico compulsivo uscito spennato dal tavolo da gioco? Perché non parlare più propriamente di alluvionati, sfollati, evacuati, persone rimaste senza casa?

E invece ecco la sinistra formula che tutti li inchioda alla loro sciagura, come lepidotteri trafitti dagli spilli nella teca di un entomologo. E riecco l’indefinito soggetto collettivo che periodicamente si ripresenta, portando sulla pelle i segni ora di un’alluvione, ora di un terremoto, ora di una frana o di una valanga (in questo sventurato Paese la malasorte non ha che l’imbarazzo della scelta).

Il “bello” (il bello? ma sì, il bello) è che questo indistinto soggetto collettivo non è per niente indistinto, ma è formato da uomini e donne, ognuno con la propria storia, che in realtà non amano rappresentarsi come «chi-ha-perso-tutto». Anche quando, nei titoli, i mezzi d’informazione glielo fanno dire; poi leggi l’articolo, o ascolti l’intervista in televisione, e «abbiamo perso la casa, le nostre cose e i ricordi di una vita», dichiara per esempio una signora, «ma almeno abbiamo salvato il negozio, da cui possiamo ripartire».

Benedetti titoli che vorrebbero sempre essere sintetici, economizzare sulle parole, e invece a volte ne impiegano più del dovuto. Perfino al presidente Mattarella in visita a Ravenna si è messo in bocca un «pensiero alle vittime e a chi ha perso tutto»: salvo che una simile banalità il Capo dello Stato si è ben guardato dal pronunciarla, come attestato dalla registrazione del suo intervento che in forma molto più articolata esprimeva «solidarietà a chi ha in questo momento il pensiero dell’abitazione devastata, [il pensiero] ai ricordi di una vita perduti, ai luoghi di lavoro commerciali, agricoli, professionali e industriali che sono inagibili».

Torniamo al 1994, valle del Tanaro: se quella volta, che non era certo la prima volta, la signora che «aveva perso tutto» avesse perso anche le staffe…

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