“Narrazione” è uno dei termini chiave della comunicazione pubblica contemporanea. C’è la narrazione di Giorgia Meloni «underdog» e la narrazione di Elly Schlein che «non ci hanno visti arrivare». C’è la narrazione di Giuseppe Conte “avvocato del popolo”, quella di Matteo Renzi “rottamatore” e ci sono state le metamorfiche narrazioni di Silvio Berlusconi “presidente imprenditore”, “operaio”, “contadino”, “ferroviere”… Anziché affidare come un tempo le loro idee a soporiferi saggi che nessuno legge, o a deprimenti articoli su riviste che nessuno compra (e che del resto neppure si pubblicano più), i leader politici hanno scoperto il business (anche commerciale) delle biografie e pseudo-autobiografie che, attraverso il racconto di una vicenda proposta come implicitamente esemplare, trasmettono la propria visione dell’Italia e del mondo (del resto, oggetto tipico delle narrazioni sono le storie, le favole, fole, spesso sinonimo di “balle”).
Non ci sono però soltanto le narrazioni della politica: c’è la narrazione d’impresa (variante più manageriale: la narrazione strategica d’impresa), la narrazione del brand, la narrazione del prodotto, la narrazione dei beni culturali, la narrazione dei musei, la narrazione della scienza, la narrazione enogastronomica, la narrazione ecologista, la narrazione pacifista e quella bellicista, la narrazione terrapiattista, le narrazioni complottiste, le narrazioni no vax, no tav, no tap… A ognuno la sua narrazione.
Che la forma narrativa si presti meglio di quella logico-argomentativa ai fini della trasmissione e della memorizzazione di un messaggio minimamente complesso è noto fin dagli albori della civiltà. In età orale, come ha spiegato in studi illuminanti il grande filologo classico Eric Havelock, i poemi omerici erano una sorta di Enciclopedia Britannica in cui gli ascoltatori, attraverso le vicende di una lontana guerra e di un favoloso viaggio per mare, potevano reperire una quantità di informazioni sull’universo fisico e spirituale del tempo e di istruzioni su come ci si comporta nelle diverse situazioni, con gli ospiti stranieri, con gli dèi, con gli anziani, su come si combatte, come si naviga, come si costruiscono le navi e così via.
Ma anche Platone, in epoca ormai risolutamente letteraria, intercala volentieri la sua opera filosofica, che è già in sé una filosofia narrata, con la narrazione di un mito che ha lo scopo dichiarato di sciogliere i nodi concettuali più intricati: nel Protagora, al celebre sofista che si accinge a esporre la sua tesi sull’insegnabilità della virtù politica, viene messa in bocca la domanda «Preferite che io, come anziano che parla ai giovani, ve la dimostri narrando un mito, oppure con un ragionamento?»; e poiché gli interlocutori gli rimettono la scelta, Protagora opta per la prima soluzione, in quanto «più piacevole». La forma narrativa assolve in questo modo a una funzione didattico-esplicativa, che in altri casi si specifica ulteriormente come più efficace in termini persuasivi-emozionali.
Nei suoi trentaquattro dialoghi (più l’Apologia di Socrate e le tredici lettere) Platone ricorre a 25 narrazioni di questo tipo. Nella nostra epoca iper-letteraria (o forse post-letteraria e neo-orale) non solo la comunicazione, nei diversi campi del comunicabile, tende a prediligere la forma narrativa, ma lo stesso vocabolo “narrazione” sempre più viene chiamato in causa, occupando un campo semantico tanto esteso quanto abusivo.
È una parola di moda che corre contagioso di bocca in bocca: una sorta di emulazione ecolalica ammantata di presunta ricercatezza, che vorrebbe denotare sintonia con lo Zeitgeist linguistico e invece attesta soltanto confusione e impoverimento del lessico. Un torto arrecato tanto al vocabolo in questione, che perde il suo significato proprio, quanto a quelli di cui usurpa le prerogative, ossia affermazione, interpretazione, rappresentazione, versione. Non è un caso, come di recente ha fatto notare Vittorio Coletti in una consulenza linguistica per l’Accademia della Crusca, che nei discorsi di chi la usa – e, aggiungiamo, di chi la contesta – la “narrazione” è spesso accompagnata dall’aggettivo “sbagliata”: «una narrazione può essere bella o brutta, convincente o deludente, noiosa o coinvolgente, ma non sbagliata, semmai mal fatta. Sbagliata è un’interpretazione, una rappresentazione concettuale».
Ma l’improprietà lessicale tocca vertici surreali quando, per salire un altro gradino nella ricercatezza, anziché “narrazione” si usa “narrativa”, per lo più seguita da “secondo/per cui/la quale”: «la narrativa per la quale le banche europee siano state vittime di una crisi del sistema bancario», «la narrativa secondo cui i russi sono interessati alla diplomazia, e l’Ucraina no». Basta sfogliare un qualsiasi giornale, o compulsare la rete, per trovare copiosi esempi. Peccato che nella lingua italiana la parola “narrativa” sia essenzialmente un aggettivo, e semmai un aggettivo sostantivato soltanto quando serve per indicare il genere letterario diverso dalla saggistica e dalla poesia. Probabilmente la confusione nasce da un maldestro riecheggiamento dell’inglese narrative, che significa “narrazione” e non “narrativa”: un errore nell’errore. Ma un errore al quale ormai è vano aspettarsi un rimedio: siamo diventati un popolo di narratori (santi, poeti e navigatori sono pregati di accomodarsi in coda).