Venerdì 2 giugno si è chiuso a Parigi il secondo dei cinque incontri – il primo si è tenuto nel 2022 in Uruguay – pensati e organizzati dalle Nazioni unite per tentare di stipulare, entro il 2024, un trattato internazionale sulla riduzione della produzione della plastica nel mondo, così da limitarne l’impatto negativo su ambiente ed esseri viventi.
Cinque giornate in cui oltre duemila rappresentanti provenienti da quasi duecento Paesi di tutto il mondo si sono confrontati e scambiati opinioni, ma non senza difficoltà. Tant’è che quello ottenuto dalla “tappa” parigina può essere considerato un risultato piuttosto striminzito, almeno rispetto alle aspettative: giusto la promessa di elaborare una bozza iniziale (la cosiddetta “bozza zero”) del trattato, che se firmato sarebbe uno dei più importanti degli ultimi dieci anni, prima del prossimo incontro, il terzo, che si terrà in Kenya a novembre.
Un piccolo passo in avanti, ma non abbastanza grande da avvicinarci alla meta finale. Quest’ultima, infatti, oltre ad essere ancora lontana, pare sia anche difficile da raggiungere per via di una serie di ostacoli posti lungo il cammino, tra cui gli interessi dell’industria petrolifera, che fornisce il materiale fossile per produrre la plastica.
E alla fine, di come e quanto ridurre la presenza di plastica nella vita di tutti i giorni, di quali punti sia essenziale includere nel trattato e di come finanziarlo, i Paesi hanno avuto modo di parlare poco, persi piuttosto in discussioni – sollevate soprattutto da Cina e Arabia Saudita, ma anche dal Brasile di Lula – sulle modalità di voto e sulla scaletta da seguire.
A questo punto è chiaro che se i governi non sono ancora riusciti a mettersi d’accordo su una questione tanto urgente quanto evidente – siamo pieni di plastica fino al collo – e che quello che dovrebbe essere il fulcro della discussione è finito per essere un tema relegato (casualmente?) ai titoli di coda, la volontà di agire in maniera concreta per combattere l’inquinamento da plastica non è così forte come sembra.
E probabilmente non lo sarà almeno finché non saranno esclusi dalle discussioni sul trattato gli interessi dell’industria fossile. Difficile credere che accadrà, almeno per ora – nonostante più di cento scienziati e gruppi della società civile abbiano scritto una lettera alle Nazioni unite per chiedere di impedire l’intromissione delle aziende inquinanti nei negoziati – visto che i “signori” del greggio stanno iniziando a guadagnare più di quanto avessero messo in conto.
Se da una parte l’occidente sta tentando di limitare il suo consumo di plastica dopo anni di eccessivo utilizzo, dall’altra i Paesi con un’economia in via di sviluppo hanno appena iniziato a vivere quel boom da cui il resto del mondo sta cercando di uscire.
Un mercato ghiotto per le imprese petrolifere, il cui interesse è tutto incentrato a preservare la produzione di nuova plastica, e per cui le colpe dell’inquinamento sono piuttosto da addossare ad un’economia circolare che non funziona nel modo corretto. Un’idea che, secondo un’inchiesta realizzata qualche anno fa da Npr, una stimata emittente radiofonica statunitense, le grandi compagnie del petrolio avrebbero inculcato nei consumatori finanziando tutte le più importanti campagne per il riciclo della plastica degli ultimi decenni.
D’altronde, come ha dichiarato Larry Thomas, ex dirigente della Plastics industry association, «se le persone pensano che il riciclo funziona, allora non saranno così preoccupate per l’ambiente e continueranno a comprare plastica». Ma, oltre a non essere efficace come si pensa, smaltire correttamente una bottiglia di plastica non basta e non è una soluzione alternativa alla riduzione del numero di contenitori immessi in circolazione, per diversi motivi.
Prima di tutto perché quella di riciclare, nonostante i progressi compiuti, continua ad essere un’attività piuttosto marginale. In un rapporto del 2018 l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) scriveva che nel mondo la quantità di plastica riciclata è inferiore al venti per cento del totale. Mentre il resto finisce in inceneritori e termovalorizzatori oppure – per la maggior parte – in discariche o nell’ambiente. I dati dicono che il materiale plastico prodotto tra il 1950 e il 2017 e non rimesso in circolo equivale a più di nove miliardi di tonnellate.
Smaltire un oggetto in plastica nell’apposito contenitore non significa garantirgli necessariamente un’altra vita. Il processo di recupero meccanico – che sostanzialmente prevede lo sminuzzamento del prodotto in piccolissimi granuli – è più complicato di così e spesso, per via di una serie di fattori finisce per stopparsi. Oltre agli alti costi, chi si occupa di riciclare la plastica deve superare decine di ostacoli prima di poter definire il processo riuscito e concluso.
È necessario ad esempio separare materiali differenti (come Pet e Pvc), che non possono essere lavorati e smaltiti allo stesso modo, scartare molto oggetti perché contenenti sostanze organiche (residui di cibo) e sostanze inorganiche di natura non plastica (come la carta o la colla delle etichette) e così via. E anche quando alla fine il rifiuto torna “polvere” ed è pronto per dare vita a qualcos’altro, il prodotto d’arrivo non sarà sicuramente simile a quello di partenza.
La plastica, quando riciclata in questo modo, si degrada e perde valore. In pratica non è più un polimero puro. La sua struttura, costituita questa volta da un mix di molecole differenti, ha una qualità inferiore rispetto al materiale vergine di partenza: può essere, ad esempio, meno resistente, o meno lucida e flessibile. Ma anche nel caso in cui, invece, il nuovo oggetto dovesse essere piuttosto simile per caratteristiche a quello di partenza, la sua capacità di riciclo si esaurirebbe comunque in un paio di cicli di vita.
La plastica, infatti, non si può riciclare all’infinito: un limite che da una parte rappresenta un grande problema per la quantità di materiale che rimane in circolo, ma che dall’altra potrebbe allo stesso tempo risultare utile a preservare la salute degli esseri viventi.
Nel suo ultimo rapporto, infatti, Greenpeace USA scrive che la plastica riciclata aumenta la sua tossicità, comprimendo al suo interno livelli più elevati di sostanze chimiche come benzene, agenti cancerogeni, inquinanti ambientali e interferenti endocrini che possono causare cambiamenti nei livelli ormonali naturali del corpo.
Considerando che gli esseri umani producono più di quattrocentotrenta milioni di tonnellate di plastica all’anno, che la maggior parte ha un ciclo vitale breve, che molti oggetti finiscono per disperdersi nell’ambiente, e che questi possono arrivare a contenere fino a tredicimila sostanze chimiche, «è chiaro che l’unica vera soluzione per porre fine all’inquinamento da plastica è ridurre in modo massiccio la sua produzione».
Come? Stipulando un accordo, come quello proposto dalle Nazioni unite, senza compromessi e interferenze. Il rischio, altrimenti, è che, come dicono le proiezioni Ocse, entro il 2060 nel mondo i rifiuti in plastica arrivino a triplicarsi, e che circa la metà di questi finisca in discarica.