Nika is freeLa liberazione di Gvaramia, il futuro europeo della Georgia e il putsch di Prigozhin

Il direttore della tv critica con il governo, in carcere da più di un anno per una sentenza politica, ha ricevuto la grazia presidenziale dopo le pressioni diplomatiche su Tbilisi, tra cui quelle dell’Ue a cui il Paese è candidato. Il suo primo tweet è sulla Wagner: «Smitizzare l’autoritarismo per sconfiggerlo»

L'abbraccio tra Nika Gvaramia e sua moglie all'uscita dal carcere
Foto di Marika Mikiashvili su Twitter

Fuori da una prigione statale georgiana, un uomo riabbraccia sua moglie (di quel momento c’è il video). È Nika Gvaramia, fondatore di un canale televisivo critico con il governo e imprigionato, di fatto, per questo: con una sentenza politica, a maggio 2022. La settimana scorsa è stato finalmente liberato, a distanza di più di un anno, dopo aver ricevuto la grazia presidenziale. Il suo nome figurava al settimo punto delle priorità poste dalla Commissione europea per l’avanzamento della candidatura di Tbilisi all’ingresso nell’Unione.

Il ricorso del giornalista era stato respinto in appello, per via delle influenze degli oligarchi sulla corte, e per un attimo è sembrato tutto perduto. Alla fine, però, è arrivato il «perdono». Il commissario europeo per l’Allargamento, l’ungherese Olivér Várhelyi, nella sua valutazione dei progressi aveva detto che non se n’erano riscontrati sul fronte della «libertà dei media». Il Council on Foreign Relations ha espresso preoccupazione per il deterioramento della democrazia. Le pressioni diplomatiche – di Bruxelles, del dipartimento di Stato americano, fino all’ambasciatore inglese – hanno funzionato.

C’è stata anche una grande mobilitazione mediatica internazionale, perché sul caso dell’oppositore non calasse mai il silenzio. Anche Linkiesta, nel suo piccolo, ha partecipato. Con la carcerazione di Gvaramia, come con la legge liberticida – poi ritirata – sugli «agenti stranieri» che sembrava redatta con il copia-incolla dal Cremlino, l’esecutivo stava tradendo le aspettative del popolo georgiano, sceso in piazza, contro i cannoni ad acqua e la polizia in assetto antisommossa, a inizio marzo per rivendicare un futuro diverso. Un futuro, in una parola, europeo.

Vignetta twittata da @NikaGvaramia212
Vignetta twittata da @NikaGvaramia212

Esiste un muro con le foto dei giornalisti in prigione, al Committee to Protect Journalists. Non capita spesso di aggiornarlo, purtroppo. La scheda di Gvaramia ha cambiato categoria: ci è stata finalmente appiccicata sopra una striscia di carta con scritto «rilasciato». Il giorno stesso il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha celebrato la notizia come «un passo essenziale verso la depolarizzazione della Georgia». Il futuro di Tbilisi è nell’Unione, è stato ribadito in quel comunicato.

In passato, il direttore di Mtavari Arkhi è stato ministro dell’Educazione e della Giustizia. Chi lo sa che non possa ricoprire una parte sulla via all’integrazione del Paese, la stessa che ha contribuito ad aprire durante i primi mandati di un presidente divisivo come Mikhail Saakashvili. I tweet sul suo profilo, in cui compariva il numero della cella (212), erano siglati «-S», dall’iniziale della moglie, Sofia, con cui avevamo parlato ad aprile, quando aveva ricordato che l’obiettivo del marito «è sempre stato liberare la Georgia dalla Russia».

Ora è ricomparsa la «-N» del giornalista. Il primo tweet che ha firmato è stato questo, sull’ammutinamento della Wagner di Yevgeniy Prigozhin: «Perché l’autoritarismo venga sconfitto, deve prima venire demitizzato. È quello che Prigozhin ha fatto: il regime di Putin non viene più percepito come una costante metafisica, ma come una vulnerabile realtà». È una delle analisi di questi giorni da ritagliare, insieme a quella dell’Atlantic. Uno stralcio.

Prighozin durante la ritirata da Rostov sul Don
Prighozin durante la ritirata da Rostov sul Don (AP/Lapresse)

«Il putsch di Prigozhin riverbererà ancora per un po’ di tempo: ha già frantumato le illusioni sulla tenuta di Putin e anche sul suo coraggio fisico – scrive il professore della Johns Hopkins University’s School of Advanced International Studies, Eliot Cohen –. Ma dovrebbe infrangere anche l’illusione che l’Occidente possa forgiare una soluzione alla “Riccioli d’oro” (cioè in cui tutto deve essere troppo preciso) a questa guerra, in cui l’Ucraina va bene ma non troppo, mentre la Russia è umiliata, ma non schiantata. Siamo spettatori di un’opera in cui gli attori hanno deciso di strappare i loro copioni e stanno invece improvvisando una tragedia anarchica, che però non lesina momenti comici».

La ribellione, il golpismo rientrato, la mediazione di un Lukashenko considerato da finale di partita, i discorsi magniloquenti e infine l’esilio bielorusso. La cronaca ha fatto rispolverare a molti l’aforisma churchilliano sulla Russia che è «un rebus, avvolto in un mistero, dentro un enigma». Forse, c’entrano soprattutto le convulsioni di un mafia State; o il «vorovski mir», il codice di condotta machista e furfantesco appreso da Prigozhin dietro le sbarre.

Difendere l’Ucraina, in questi diciassette mesi, ha risparmiato ad altri Paesi – futuribili martiri della sfera d’influenza a mano armata del Cremlino – traiettorie simili. Invece di restaurare un fantomatico impero, nella fortezza putiniana si sono aperte crepe. Mentre, come ha colto Gvaramia, scoloriva la favola dell’invincibilità di uno «zar» che ripete sempre le stesse cose, una realtà falsificata dove c’è stata (l’inesistente) mobilitazione a difesa del capo.

In Russia non è il 1917 delle «pugnalate alle spalle» e delle guerre civili, evocate da Vladimir Putin, è il 1604 del caos e dei disordini, come ha scritto Foreign Affairs. Il resto del mondo, gli alleati di Kyjiv, sono nel 2023. Anche Tbilisi vuole restarci, sognando l’Europa.

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