Piazze piene, urne vuoteLa normalizzazione mai avvenuta in Kosovo e il sentimento anti-Nato che piace alla Russia

Mosca ha tutto l’interesse ad allargare le tensioni nell’Est Europa, mentre il presidente serbo Vucic, suo alleato de facto, continua a soffiare sul malcontento e sull’onda nazionalista

Un soldato della missione Kfor ferito
AP Photo/Bojan Slavkovic

«Piazze piene e urne vuote» è una famosa frase di Pietro Nenni che oggi ci potrebbe spiegare, almeno in parte, la nuova crisi che sta attraversando il Kosovo. Le piazze sono piene della minoranza serba, che nel Nord del Paese è maggioranza, le urne vuote sono quelle delle città dove la stessa comunità che sta protestando ha deciso di boicottare le elezioni comunali dello scorso 23 aprile.

La comunità albanese invece ha partecipato e, nonostante un’affluenza media inferiore del quattro per cento per una legge nazionale, ha eletto a sindaci i propri rappresentanti. In questi giorni ci sono stati gli insediamenti e gli osservatori internazionali e alcuni esponenti del governo di Pristina speravano che avvenisse tutto in sordina, per evitare l’aggravarsi di una tensione che arriva da lontano.

Invece le cerimonie pubbliche e il giuramento dei sindaci hanno fatto scattare le proteste dei serbi nelle città di Zvecan, Zubin Potok e Leposavic. Nelle prime due i primi cittadini non sono riusciti nemmeno ad arrivare al palazzo municipale, nell’ultimo caso invece sì, il sindaco è all’interno del municipio e i manifestanti fuori ad assediarlo. Le forze di polizia del Kosovo si sono schierate, ma a fare da corpo di interposizione con i serbi c’erano i militari della missione Kfor a guida Nato, con gli italiani a fare da contingente principale. L’accordo tra i rappresentati politici serbi, in particolare la Lista Serba per il Kosovo, e Kfor è il ritiro della polizia kosovara dalle piazze.

Nel frattempo, la Nato ha deciso di inviare settecento militari in aiuto ai quattromila già presenti nel Paese, mentre la Serbia ha inviato il proprio esercito sul confine. I manifestanti non sembrano voler andare via dalle piazze, almeno fin quando i sindaci non si dimetteranno.

Questa è la cronaca di questi giorni, ma per capire questa crisi bisogna fare un passo indietro, o forse anche qualcuno di più. Sicuramente bisogna andare a un anno fa, quando nell’estate del 2022 la città di Mitrovica è stata teatro di altri scontri tra serbi e albanesi, sempre con le truppe Kfor a fare interposizione per alcune ore, prima dell’intervento della comunità internazionale e il rinvio di un provvedimento che era stato la miccia di quel fuoco (quasi) improvviso: il divieto di utilizzare le targhe serbe in Kosovo.

Una sciocchezza per chi guarda con i nostri occhi, un punto di non ritorno per una comunità che dalla fine della guerra nel 1999 e dalla dichiarazione di indipendenza del 2008 si è sempre vista relegata a un angolo e senza diritti.

Su questo malcontento il presidente serbo Vucic ha sempre soffiato per cavalcare l’onda nazionalista in patria e rivendicare i territori oltre confine, l’ultima mossa politica in questo senso è stata la concessione del voto alle presidenziali di Belgrado ai serbi del Kosovo, con il governo di Pristina che ha protestato, ma sulla quale non c’è stata nessuna marcia indietro.

L’ultimo anno è stato costellato di diversi momenti di tensione e scontri ma anche da uno di conciliazione lo scorso marzo, grazie alla mediazione dell’Unione europea. Kosovo e Serbia si impegnavano al riconoscimento dell’indipendenza, dell’autonomia e dell’integrità territoriale, passaggio fondamentale per il Kosovo, che a sua volta si impegnava nella «formalizzazione dello status della Chiesa ortodossa serba in Kosovo e a fornire protezione ai siti del patrimonio religioso e culturale serbo», oltreché «autogestione per la comunità serba in Kosovo».

Al momento queste promesse sono rimaste tali e l’insediamento dei sindaci ha riacceso la miccia in un territorio dove la destabilizzazione arriva anche da lontano: dall’inizio della guerra in Ucraina il simbolo russo della «Z» è apparso in diverse occasioni nella Repubblica Serba di Bosnia, in Serbia e in questi giorni anche nel Nord del Kosovo.

Il sentimento anti-Nato viene cavalcato dall’alleato storico della Serbia: la Russia, che ha tutto l’interesse ad allargare le tensioni nell’Est Europa. In Bosnia lo scorso ottobre i nazionalisti serbi non hanno avuto l’exploit che speravano dopo mesi di dichiarazioni di fuoco sull’autonomia nella gestione delle tasse e dell’esercito, con la minaccia di un referendum per l’indipendenza mentre i serbi del Kosovo da un anno chiedono costantemente una maggiore autonomia nelle zone dove sono maggioranza.

In tutto questo la comunità internazionale con Stati Uniti e Unione europea in testa, ha chiesto al presidente kosovaro Kurti di abbassare le tensioni e di evitare altre situazioni che potrebbero riaccenderle, un segnale chiaro verso una normalizzazione mai avvenuta in un Paese strategico nell’area dei Balcani.

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