La primavera di BelgradoLe proteste in Serbia porteranno a elezioni anticipate

Dopo due sparatorie che hanno fatto diciassette vittime in due giorni, è cominciata una mobilitazione nel Paese, terzo al mondo per possesso di armi da parte dei civili. La gestione del presidente è stata confusionaria, ma non è scontato che il voto possa cambiare lo scenario politico dominato da Vučić

La protesta di massa a Belgrado
Twitter/@PopulismUpdates

Entro settembre la Serbia potrebbe tornare al voto per la terza volta negli ultimi quattro anni. Lo ha annunciato il presidente Aleksandar Vučić in conferenza stampa aggiungendo che il 26 maggio verranno forniti maggiori dettagli su tempistiche e modalità. In una fase in cui sembrava che il leader serbo fosse arrivato quantomeno a una tregua nella gestione del rapporto con Pristina (pur avendo tentato di boicottare le elezioni di fine aprile nelle regioni del nord del Kosovo), Vučić si è trovato ad affrontare una doppia tragedia che ha scosso il Paese in maniera profonda.

La mattina del 3 maggio a Belgrado uno studente è entrato a scuola armato e ha iniziato a sparare, uccidendo un bidello e otto studenti. Il giorno seguente una quindicenne ha tentato di accoltellare un coetaneo e un insegnante (senza riuscirci), dando vita a una serie di incidenti che sono andati avanti per tutto il giorno in vari istituti del Paese. Il fatto più grave si è verificato in serata quando un’altra sparatoria in un villaggio vicino a Belgrado ha portato all’uccisione di otto persone tutte tra i quindici e i venticinque anni. In soli due giorni gli episodi di violenza hanno causato la morte di diciassette persone e oltre venti feriti, in buona parte giovanissimi.

In risposta alle sparatorie, il governo ha varato una serie di misure sulla detenzione di armi, prevedendo una sorta di periodo di amnistia di trenta giorni entro i quali i possessori illegali potranno restituire pistole e fucili senza incorrere in sanzioni. Una norma già prevista in altre quattro occasioni ma che non ha mai sortito grandi risultati. La polizia qualche giorno fa ha mostrato più di tredicimila armi già “condonate” tra cui bombe a mano e lanciarazzi anticarro, che verranno prese in carico dall’esercito serbo.

Il presidente serbo Vucic ispeziona le armi consegnate
Vucic ispeziona le armi consegnate (Foto AP)

Ma l’artiglieria consegnata questa settimana sembra essere solo la punta dell’iceberg in un Paese che, secondo il New York Times, è al terzo posto nel mondo per possesso di armi ogni cento abitanti, dopo Stati Uniti e Yemen. La Serbia ha un problema endemico con il possesso di armi che si porta dietro dalla guerra e le misure spot del governo, peraltro già sperimentate, non sembrano essere la ricetta giusta per risolvere la questione.

Anche la gestione comunicativa della vicenda da parte di Vučić non è stata delle migliori: dopo il primo attentato si è lasciato scappare una serie di informazioni relative alla vita privata della famiglia del colpevole che poco c’entravano con gli omicidi. Una fuga di notizie irrilevanti che non ha contributo a calmare la situazione. Il leader populista serbo si è poi sbagliato anche sul secondo attacco, definendolo di matrice terroristica, per via della maglia con il numero ottantotto (numero riconducibile al nazismo) indossata dall’assassino. In realtà è poi emerso come la t-shirt fosse un ricordo di una gita scolastica.

La comunicazione schizofrenica e confusa di Vučić ha avuto l’effetto di innervosire la popolazione. È iniziata a circolare addirittura la notizia della possibile introduzione della pena di morte, idea troncata sul nascere grazie al lavoro della premier Brnabić perché contraria agli standard europei. Una gestione della vicenda che ha portato le opposizioni e decine di migliaia di cittadini a manifestare pacificamente a Belgrado e nelle altre città del Paese.

I manifestanti, uniti dallo slogan «Serbia contro la violenza», hanno chiesto le dimissioni di vari ministri del governo oltre a quella del capo dell’Agenzia nazionale per i media elettronici, considerato uno dei principali colpevoli della promozione sulle reti nazionali di contenuti violenti. Si è dimesso solo il ministro dell’istruzione Branko Ružić. Le manifestazioni sono durate diversi giorni e hanno paralizzato la capitale in vari punti.

A questa situazione si è aggiunto il lungo articolo del New York Times  dal quale emergono i dettagli sugli stretti rapporti del Presidente serbo con Veljko Belivuk, figura ben nota a Belgrado a capo di una banda criminale serba accusata di omicidi e traffico di droga.

Una figura che secondo il Nyt ha svolto negli anni il lavoro sporco per Vučić, oltre a creare consenso politico nel mondo della tifoseria organizzata (che in Serbia ha un peso non indifferente). L’articolo ha aggiunto elementi specifici su una situazione che da questa parte dell’Atlantico era nota, ma soprattutto ha alzato ulteriormente la pressione sul presidente serbo in uno dei momenti più delicati da quando guida il Paese.

L’Unione europea metterà sotto la lente d’ingrandimento la gestione di questa fase da parte del leader di un Paese candidato all’ingresso tra i Ventisette. A maggior ragione dopo le schermaglie degli ultimi mesi legate alle mancate sanzioni alla Russia e all’atteggiamento poco costruttivo nei confronti del Kosovo.

In questo clima il presidente serbo è stato costretto a prendere in considerazione nuove elezioni. Il 27 maggio nel corso dell’Assemblea del Partito progressista, se ne saprà di più. Il giorno prima però il leader organizzerà «la più grande manifestazione di sempre».

Vučić proverà a mostrare i muscoli per dimostrare al partito e al Paese che il popolo è ancora dalla sua parte. O almeno così spera. Sicuramente qualche certezza è venuta meno nel leader populista che poco più di un anno fa veniva eletto presidente con oltre il sessanta per cento dei voti. Il punto è che le opposizioni sono frammentate e non è affatto scontato che eventuali elezioni possano stravolgere gli attuali scenari in maniera significativa.

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