Frozen Diamo all’Ucraina i proventi dei miliardi russi congelati dalle sanzioni europee

Gli asset bloccati, in teoria, dovranno essere restituiti alla scadenza delle restrizioni. L’Unione europea valuta allora di intervenire sugli interessi che fruttano, per devolverli a Kyjiv

Foto AP

C’è una differenza tra congelare e confiscare. L’Unione europea ha già fatto ricorso alla prima misura, bloccando i beni russi con le sanzioni adottate dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ma sta studiando la seconda, cioè se e come agire sulle risorse sottratte al nemico ma formalmente ancora di sua proprietà, senza però mai uscire dall’alveo del diritto internazionale, come fa invece il Cremlino. In questo semestre di presidenza svedese, è stata istituita una task force apposita.

All’Euroclear, il principale deposito di titoli internazionali dell’eurozona con sede a Bruxelles, sono bloccati duecento miliardi di euro in asset della Federazione, di cui centottanta miliardi provengono dalle riserve della Banca centrale russa. I vincoli sono scattati come ritorsione all’aggressione. Le restrizioni forniscono una base legale per questo: togliere il denaro dalla disponibilità di uno Stato che lo spenderebbe per finanziare la guerra, lo ha spiegato bene un panel all’Europarlamento questa settimana.

Il passo successivo è problematico. In teoria, infatti, i beni andrebbero restituiti una volta rimosse le sanzioni. Un conto, poi, sono le proprietà degli oligarchi collusi con il Cremlino (venti miliardi), o gli investimenti di aziende inserite nella macchina bellica, un altro – più delicato – sono i fondi sulla carta pubblici, come le riserve della Banca centrale, che nominalmente appartengono ai cittadini dello Stato aggressore. Il decimo pacchetto di contromisure ha introdotto un obbligo specifico di monitoraggio per gli Stati membri.

Grafico che mostra i beni congelati alla Banca centrale russa
Grafico Reuters

Questa situazione, miliardi messi sottochiave mentre l’Europa alleata di Kyjiv capisce cosa farne, ha prodotto un paradosso. Da un lato i russi imbastivano ricorsi legali nel tentativo, se non di sbloccare i beni, di impedirne l’esproprio, o rimandarlo. Dall’altro, Euroclear nel 2022 ha registrato un anno da record, grazie alle cedole che non ha dovuto pagare a Mosca. Sono raddoppiati i profitti e il bilancio si è gonfiato, da ottantotto miliardi a centoquaranta miliardi di euro. L’istituto reinveste i guadagni: 734 milioni su 971 di interessi, nei primi quattro mesi del 2023, provengono da asset russi.

Uno spiraglio ci sarebbe. Escludendo di intaccare i possedimenti originari – quelli congelati, appunto, ma non confiscati – un’ipotesi più concreta potrebbe essere allora intercettare i ricavi che generano. E dirottarli all’Ucraina. Euroclear, a marzo, ha fatto sapere che non renderà accessibili questi utili «finché la situazione non diventerà più chiara». Il governo belga, dove il deposito ha sede, intende invece destinare all’assistenza umanitaria i proventi delle tasse sui profitti, stimati in 625 milioni.

Una nuova proposta, operativa, potrebbe arrivare al Consiglio europeo di fine giugno. Il dossier verrà probabilmente trasferito, insieme alla squadra di esperti guidata da Anders Ahnlid, alla presidenza spagnola, cui spetta la seconda metà dell’anno. Ahnlid è stato chiaro: la sfida, per le democrazie, è rispettare la legge internazionale, ma al tempo spesso riuscire a concepire soluzioni innovative. Tra gli Stati membri, l’Estonia è stata la prima a provare a redigere delle norme per consentire il sequestro dei beni russi in suo possesso.

Bruxelles, dove ha sede Euroclear
Bruxelles, dove ha sede Euroclear (foto di Petar Starcevic su Pexels)

Alle tre Repubbliche baltiche si è aggiunta la Polonia. «Non possiamo aspettare la fine della guerra o un accordo di pace», hanno scritto i quattro governi in una lettera di febbraio ai vertici di Commissione e Consiglio. Come a dire: i miliardi russi custoditi dalle democrazie liberali possono contribuire ad accorciare il conflitto. Un documento visto da Politico calcola addirittura un margine di guadagno del 2,6 per cento dalle riserve della Banca.

La strategia sarebbe lasciare intatto l’importo pre-sanzioni, quello ipoteticamente da ricostruire, e destinare tutto ciò che avanza alla ricostruzione dell’Ucraina. Una spesa stimata, finora, in 411 miliardi di dollari. Le riserve congelate alla Banca centrale in Occidente ammontano a trecento miliardi, due terzi dei quali in Europa. Un ostacolo legale che rimane è come regolarsi di fronte a eventuali perdite, qualora gli investimenti non andassero come previsto.

Putin con una dietro bandiera russa
(Foto AP)

Un editoriale di Reuters a gennaio esprimeva scetticismo: comprando titoli affidabili, come i Bund decennali tedeschi, i rendimenti ammonterebbero a circa quattro miliardi di euro all’anno. «Meno di un mese del fabbisogno finanziario del governo ucraino», stroncava l’analisi. Però, in tempo di guerra, nessun importo è trascurabile. C’è poco da fare gli schizzinosi, soprattutto se quegli introiti arrivano sfruttando una montagna di denaro nemico altrimenti inutilizzato.

Per impedire che il precedente di Putin si ripeta, e scoraggiare i suoi emuli, si potrebbe immaginare un’eccezione all’immunità, come suggerito da un report del World Refugee & Migration Council. Si potrebbe passare da una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, oppure con un accordo sottoscritto tra gli Stati che hanno congelato beni russi, o minacciati dall’espansionismo imperialista di Mosca.

La norma è dimostrare il collegamento tra i proprietari e i crimini. Ancora, è noto, la comunità globale non ha trovato una formula per punire quelli perpetrati in Ucraina. Per i cleptocrati del regime, che per troppi anni hanno spadroneggiato in un’Europa ammaliata dalla loro munificenza e dalle mance generose, la collusione è evidente. Sarebbe così lunare ribaltare l’onere della prova? O trattare i beni degli oligarchi come quelli confiscati alla mafia?

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