A quasi un anno e mezzo dall’inizio dell’invasione russa, l’Ucraina non solo è ancora in grado di resistere, ma sembra aver frustrato ogni tentativo russo di ottenere nuovi risultati ed è in procinto di lanciare una nuova offensiva, per la quale ha accumulato un potenziale notevole, rimasto intatto in tutti questi mesi nei quali ad attaccare erano i russi. Questo risultato si sarebbe difficilmente potuto ottenere senza gli aiuti occidentali.
L’Ifw (Istituto per l’economia mondiale) di Kiel ha realizzato l’Ukraine support tracker, che fornisce un quadro dettagliato (anche se non aggiornatissimo, visto che i dati sono spesso vecchi di uno o due mesi) della quantità di aiuti promessi e di quelli effettivamente consegnati dai vari Paesi. Siamo a un totale, a fine febbraio, superiore a centocinquantacinque miliardi di euro, cui circa settanta in aiuti militari; questi, poi, sono ulteriormente cresciuti negli ultimi due o tre mesi e, oggi, formano una parte significativa dell’equipaggiamento con cui Kyjiv si sta difendendo.
Tanto per dare un’idea, secondo il fondamentale sito Oryx, l’Ucraina avrebbe perso cinquecentoquattro carri armati dall’inizio della guerra e ne avrebbe catturati cinquecentoquarantatré; a questi se ne aggiungono cinquecentosettantacinque consegnati dai Paesi amici e altri duecentododici in arrivo. Chiaramente, gli aiuti servono non solo a ricostituire le capacità difensive ucraine, ma anche a spostare progressivamente l’equilibrio a favore dei difensori, a respingere l’aggressione e ad arrivare, il prima possibile, a una pace giusta.
Oggi l’Ucraina dispone di capacità militari superiori a quelle con cui ha iniziato la guerra, per lo meno sul piano dell’equipaggiamento: più carri armati, più mezzi blindati di altro tipo, dai veicoli da combattimento della fanteria ai trasporto truppe, da quelli da esplorazione ai veicoli per la mobilità della fanteria (circa duemila perduti, mille catturati, quattromilaquattrocento ricevuti e altri duemilacento in arrivo), più artiglieria semovente e trainata, più antiaerea.
Maggiore quantità e, in molti casi, con migliore qualità, mentre le forze russe devono fare affidamento su materiale sempre più obsoleto e scadente, che a volte cade a pezzi da solo. Lo vediamo soprattutto nel caso della difesa aerea, dove l’arrivo (finalmente!) di due batterie Patriot e una degli italo-francesi SAMP-T ha di fatto chiuso i cieli ucraini ai missili russi, almeno fin dove arriva la loro capacità di copertura.
Insomma, è innegabile che gli aiuti arrivati siano tanti e determinanti. Assieme alle armi, poi, ci sono programmi di addestramento a tutti i livelli, per intere unità, che permettono non solo di usare con efficacia il materiale fornito, ma anche di creare le capacità necessarie al campo di battaglia moderno, dove non serve carne da cannone ma combattenti esperti, capaci di analizzare la situazione, prendere decisioni e agire di concerto anche in contesti molto complessi.
Oggi, con lo sblocco anche degli F-16, sembra che non ci siano più linee rosse o materiale vietato. Come ha detto il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius, nella scelta del materiale da inviare devono prevalere le considerazioni operative e quelle sulla disponibilità in tempi ragionevole, invece di stabilire a priori che certi sistemi sono accettabili e altri meno.
Lo scopo ormai è chiaro e condiviso in tutto il campo occidentale, al di là di sparute eccezioni come i governi di Austria e Ungheria: si deve aiutare l’Ucraina a vincere, ossia a liberare tutto il suo territorio, semplicemente perché tollerare che la Russia possa ottenere qualcosa dalla sua invasione, oltre a essere un’ingiustizia, sarebbe devastante per qualsiasi prospettiva di ordinamento pacifico delle relazioni internazionali. In questo caso, insomma, i nobili principi del rifiuto della guerra di aggressione vanno insieme all’interesse di tutelare l’occidente dal tentativo di espansione russa e dai giochi imperiali della Cina di Xi Jinping.
La partita si gioca su diversi livelli: sul campo, certamente, dove l’Ucraina combatte da sola con il nostro appoggio materiale, ma anche sul piano economico e industriale sul quale, c’è poco da girarci intorno, siamo parti in causa. Da un lato, con le sanzioni, stiamo attaccando le capacità produttive russe e la coesione del regime; dall’altro, con gli aiuti militari, che hanno superato da un pezzo la cessione di quello che avanzava nei nostri magazzini.
Anzi, proprio la guerra ha evidenziato la necessità di incrementare drasticamente i fondi per la difesa e rivedere le nostre politiche industriali. Se oggi, sempre in base ai dati Ifw, sappiamo che gli Stati Uniti hanno fornito aiuti militari per circa quarantaquattro miliardi e l’Europa (Regno Unito compreso) per venticinque, sappiamo anche che questo squilibrio ribadisce la nostra condizione di subalternità all’alleato americano, visto che senza le sue armi la situazione sarebbe ben diversa.
Esemplare, in questo senso, l’atteggiamento della Germania, che ha invertito una trentennale politica di disinvestimento dalla difesa e, dopo quasi un anno di aiuti al minimo, oggi è diventata il secondo Paese donatore (dopo gli Stati Uniti) e sta reimpostando la sua politica industriale, rivitalizzando il comparto difesa con stanziamenti e programmi che possono essere letti anche in termini di egemonia industriale.
Del resto, un simile cambio di passo è necessario: per anni, il materiale militare è stato prodotto in piccolissima serie, quasi in modo artigianale. Le esigenze del fronte sono di diversi ordini di grandezza superiori a quanto si possa produrre in questo modo e per rimettere in moto la macchina industriale sono necessari investimenti per lo meno a medio termine. Investimenti che, detto per inciso, non sono a perdere: il comparto difesa, oltre a soddisfare esigenze pubbliche di indubbia importanza, ha notevoli ricadute nell’innovazione in moltissimi campi, dall’IT alla tecnologia dei materiali, dall’automotive allo spazio, fino alla logistica e alle telecomunicazioni. In questo senso, il riordino dell’industria della difesa europea, sottolineato anche dallo Strategic Compass, è una priorità che va anche oltre la guerra in corso.
D’accordo, ma a questo punto, cosa serve ancora all’Ucraina per vincere? Molte cose. Innanzitutto, un continuo afflusso di materiale “consumabile”, che nell’attrito della battaglia dura relativamente poco. In questa categoria rientra di tutto, dalle munizioni di ogni tipo (dalle armi leggere all’artiglieria) al materiale medico, dalle razioni a divise e scarponi, dalle protezioni balistiche ai droni da osservazione, da radio e computer palmari a equipaggiamenti per la visione notturna, dai veicoli leggeri agli equipaggiamenti da campo (tende, sacchi a pelo, stufe, ecc.), dalle armi da fanteria ai dispositivi anti-drone. Tanta, tantissima roba, da produrre e consegnare fino a che le ostilità continueranno.
Poi, il materiale per la difesa aerea. Come si è detto, è stato realizzato un importante salto di qualità, ma fino a che le case, gli ospedali, le scuole dell’Ucraina continueranno a essere colpite, non si sarà ancora garantita una difesa sufficiente. Bisogna mandare altri sistemi e munizionamento a sufficienza.
Altro punto: l’equipaggiamento pesante. Carri armati, blindati, artiglieria sono mezzi essenziali per liberare il territorio ancora occupato. Oggi, le nuove brigate ucraine sono dotate di materiali sufficienti, ma è un guazzabuglio di mezzi diversi, presenti spesso in poche decine per tipo. Una situazione del genere è un incubo logistico e può durare per una singola offensiva di breve respiro, poi i mezzi cominciano a venire danneggiati o semplicemente a rompersi e ripararli, con ogni tipo che richiede pezzi di ricambio diversi, può essere una sfida sovrumana.
Se la guerra dovesse continuare, sarebbe necessario razionalizzare le forniture, superando la logica dell’emergenza e fornendo materiale omogeneo di qualità, su modelli concordati a livello Nato. In questo senso, un aiuto prezioso può venire dall’iniziativa della Rheinmetall di costruire una fabbrica in territorio ucraino per la riparazione e la costruzione di veicoli corazzati, che permetta di realizzare, da subito su vasta scala, almeno parte di quanto necessario, con modelli avanzati e omogenei.
Poi c’è il munizionamento di precisione, fondamentale per colpire in profondità dietro le linee russe e neutralizzare i punti nevralgici, per ostacolarne le azioni offensive e favorire le iniziative ucraine. Gli Himars (lanciarazzi guidati a lunga gittata) americani hanno mostrato l’efficacia di questi sistemi; l’introduzione delle Jdam (bombe plananti a guida satellitare) e, soprattutto, dei missili stealth Storm Shadow anglofrancesi e, forse, dei Taurus tedeschi rappresenta un ulteriore salto di qualità. Qui è fondamentale assicurarsi che gli ucraini non restino a secco: gli attacchi contro la logistica e la catena di comando devono essere ripetuti e prolungati nel tempo, altrimenti il nemico può ripristinare le capacità perdute con relativa facilità.
Infine, la questione degli aerei. Gli F-16 saranno sicuramente un’importante aggiunta al dispositivo militare ucraino e potranno aumentare di molto la protezione dalle minacce aeree e colpire la flotta russa. Ma, da soli, servono fino a un certo punto. Un’aviazione realmente capace è un apparato molto costoso e complesso, che richiede anni per essere messo in piedi. C’è da chiedersi se valga davvero la pena investire in questa direzione o se non sia il caso, semplicemente, di fornire una quarantina di aerei per le funzioni base e concentrarsi su altro.
In tutto questo, l’ultima domanda è: cosa può fare l’Italia? Innanzitutto, dobbiamo capire cosa fare da grandi, nel senso che bisogna avere una chiara visione strategica del grande gioco dell’industria europea della difesa, che a sua volta determinerà una parte significativa della politica industriale dell’Unione europea. A parte questo, è necessario fare di più, meglio e in modo più visibile. Il contributo italiano allo sforzo bellico ucraino, per quello che se ne sa, è molto basso: sempre stando ai dati Ifw, parliamo di seicentosessanta milioni, la metà della Svezia o della Norvegia, un quarto della Polonia, un decimo della Germania. Possiamo fare di più, soprattutto possiamo, dobbiamo farlo alla luce del sole. La segretezza del contributo militare italiano è un unicum in tutto l’occidente; al di là delle ragioni di sicurezza e opportunità che suggeriscono di non essere troppo dettagliati su alcuni sistemi, dobbiamo dire con chiarezza quello che stiamo dando, se non altro per ovvie ragioni di trasparenza e civiltà democratica.
L’Italia può fare molto altro. In quanto paese con un’importante industria della difesa altamente integrata con tutti i partner europei e internazionali, potrebbe farsi promotrice di un maggior coordinamento, definendo innanzitutto una nicchia ben specifica per i sistemi da fornire, per esempio i blindati ruotati Centauro e Freccia, invitando altri paesi a fare altrettanto, per rendere più razionale e omogeneo l’afflusso di mezzi all’Ucraina.
Esiste la concreta possibilità che questa guerra possa durare ancora a lungo. Dobbiamo smetterla di navigare a vista, sperando che si risolva prima di prendere delle decisioni di ampio respiro, e fare di più, meglio e con maggiore rapidità. C’è un appello, di Valerio Federico, firmato da autorevoli studiosi, analisti, politici, giornalisti, che chiede esattamente questo: è il caso di sostenerlo.