Una battaglia contro gli studios e le principali piattaforme di streaming che mette in discussione uno dei binomi che negli ultimi anni si sono cementati maggiormente nel mondo dell’intrattenimento, quello tra cinema e moda, con celebrity ormai abituate a indossare le creazioni delle più note maison durante i vari red carpet in giro per il mondo. Un accordo economico win-win, che fino ad oggi ha fatto guadagnare entrambe le parti. Le celebrity e i loro personal stylist, in primis, godono dell’opportunità di indossare creazioni realizzate ad hoc per l’occasione: nel tour di Barbie, che farà scuola di perfetto marketing negli anni a venire, Robbie e lo stylist Andrew Mukamal hanno collaborato con diversi designer per progettare abiti ispirati ad alcuni degli outfit della bambola di Mattel, come nel caso del vestito rosa confetto con corsetto di Vivienne Westwood, epigono della Barbie “Enchanted evening”, indossato da Robbie alla premier londinese o del minidress di Emilio Pucci, con frisé come nel modello della Barbie Totally Hair, del 1992, senza dimenticare il vestito da sera di Schiaparelli Haute Couture uguale a quello di Barbie “Solo in the Spotlight” del 1960.
Dall’altra, le maison utilizzano queste occasioni come strumento di marketing per veicolare la loro immagine su palcoscenici ai quali non si affacciano soltanto gli appassionati di moda: proprio l’abito di Schiaparelli, secondo quanto riferito al New York Times da Alison Bringé, a capo del marketing di Launchmetrics, l’azienda di analisi dati, ha generato «2,1 milioni di dollari in MIV, media impact value, in sole 24 ore, che è più della metà di quanto racimolato dallo show dell’inverno 2023 di Schiaparelli» (per chi non è fluente nel linguaggio del marketing il Miv è un valore studiato proprio da Launchmetrics, che misura l’impatto mediatico dei placement di prodotti beauty e del lusso in un’industria, quella della moda, dove i confini tra social, new media e giornali sono sempre più sfocati: in questo modo si aiutano le aziende, dando loro delle metriche per valutare quanto può potenzialmente fruttare investire con della pubblicità sul numero di settembre di Vogue o invece realizzare un post sul backstage delle sfilate di Parigi, tramite il canale TikTok del giornale).
Insomma, la love story tra cinema e moda sembrava veleggiare verso un orizzonte di serenità, fino al 14 luglio, data nella quale il sindacato degli attori (il Screen Actors Guild, abbreviato in Sag) ha deciso di unire le forze con quello degli gli sceneggiatori (Writers Guild of America, WGA) alzandosi nel mezzo delle premère, come accaduto alla prima di Londra di Oppenheimer del 13 luglio, durante la quale Cillian Murphy, Emily Blunt e gli altri attori hanno lasciato la sala di proiezione. Da quel giorno, fino alla risoluzione delle divergenze, per chi fa parte del SAG (composto da più di 160 mila membri) è vietato prendere parte a produzioni cinematografiche o attività di promozione dei film. Di conseguenza, sembrano già in pericolo i red carpet del festival del cinema di Venezia e di Toronto.
Una vera e propria rivoluzione, se si pensa che i due sindacati non marciavano insieme da più di 60 anni e che l’ultima volta che gli sceneggiatori si sono messi in sciopero è stata 13 anni fa. A portare alla rottura dell’idillio non sarebbero state divergenze tra ricchi, in stile Guerra dei Roses, ma la richiesta di condizioni lavorative dignitose. Secondo il Los Angeles Times, il WGA chiede complessivamente 600 milioni di dollari in aumenti. E sebbene la cifra possa sembrare esosa, gli sceneggiatori sostengono che «mentre le case di produzione continuano a macinare profitti, gli sceneggiatori sono lasciati indietro». Si accusano le compagnie di aver utilizzato lo strumento delle piattaforme come Netflix e Prime video per tagliare loro lo stipendio, separando il lavoro di scrittura da quello di produzione.
Sostanzialmente, anche se il loro stipendio settimanale minimo, secondo Variety, è di 4,546 dollari, con gli show in streaming il numero delle settimane nelle quali gli sceneggiatori effettivamente lavorano si è di molto ridotta, perché genericamente la durata di una serie su una piattaforma di streaming è minore rispetto a quella per una serie che passa sulla tv via cavo. Se si considera il costo della vita nelle città nelle quali gli sceneggiatori lavorano (New York e Los Angeles) «siamo passati da un lifestyle stabile, da classe media, a uno che richiede molte economie», come spiegato a BBC News da Eli Edelson, a capo del sindacato. Difficoltà che non sono equamente distribuite, se ad esempio il co-ceo di Netflix Ted Saransos si è aumentato lo stipendio (il suo pacchetto retributivo ha raggiunto i 50 milioni di dollari lo scorso anno).
E così, mentre i ceo continuano a guadagnare sempre di più, gli sceneggiatori, anche quando firmano prodotti pluri-premiati, sono costretti a fare le collette tra amici e parenti per comprarsi i tuxedo per andare a ritirare i riconoscimenti: è successo ad Alex O’Keefe, tra gli sceneggiatori responsabili di The Bear, che per presentarsi sul palco dei Writers Guild of America Awards, dove il prodotto ha vinto come migliore serie comedy, ha dovuto ricorrere all’aiuto dei familiari, e comprarsi un papillon a credito. «Non definirei tutti gli sceneggiatori come poveri o in debito, ma posso dire che io ho 6 dollari nel mio conto in banca», ha detto a BBC News.
Le ragioni del sindacato degli attori – capitanato oggi da un’improbabile Fran Drescher, attrice nota in Italia per la serie tv degli anni ‘90 “La tata”, che ha smesso i vestiti Moschino e imbracciato l’uniforme da sindacalista – sono di natura diversa. Da una parte l’utilizzo dell’intelligenza artificiale (che potrebbe nel lungo termine sostituirli o replicare la loro immagine senza che venga loro retribuito un giusto compenso), dall’altra la questione dei “residuals”, ossia gli assegni relativi ai loro diritti d’immagine, che gli attori percepivano, ad esempio, quando un film o una serie nella quale avevano recitato veniva ritrasmessa alla televisione.
Un valore complicato, definito negli anni ‘60, l’ultima volta che gli attori e gli sceneggiatori si sono uniti in sciopero, e che tiene conto della durata del prodotto, della rilevanza del ruolo, del budget della produzione e di dove il film o la serie sono riprogrammati. Questi assegni permettono agli attori – soprattutto a quelli che non sono star di primo piano come Brad Pitt o Margot Robbie – una relativa stabilità, tra la fine di un progetto e l’inizio di un altro. Peccato che, con l’avvento delle piattaforme di streaming, questi assegni siano notevolmente diminuiti nei loro importi.
Se il cast di Friends, ad esempio, guadagna ancora milioni dai diritti sulla serie degli anni ‘90, molte delle attrici di Orange Is The New Black, pluripremiata serie Netflix andata in onda dal 2013 al 2019, si fermano a molto meno: molte di loro hanno ammesso di aver dovuto continuare a mantenere un secondo lavoro durante le riprese e di percepire residuali dagli importi tutt’altro che ingenti. È il caso dell’attrice Kimiko Glenn, che in un video pubblicato su TikTok ha mostrato un assegno di 27 dollari, relativo ai residuals del prodotto, che è stato acquistato e rivisto anche all’estero, negli ultimi 10 anni. Una situazione di ristrettezze che porta gli attori di serie tv, quelli lontani dallo status di A-list celebrity tale da non riuscire neanche a pagarsi l’assicurazione sanitaria del sindacato, che viene a costare 27 mila dollari l’anno, sostiene il sito americano Fortune.
Se questa battaglia, quindi, riguarda la vasta maggioranza di attori e sceneggiatori che non finiscono di certo sulle copertine dei magazine, i primi effetti sono visibili proprio sui red carpet, che sono banditi da qui a data da destinarsi, ma anche sui giornali, dove gli attori non possono comparire per pubblicizzare un film nel quale appaiono. Una situazione che nel lungo termine potrebbe portare a uno shutdown dell’industria hollywoodiana, ma che di certo non fermerà la moda e la sua connessione a filo doppio con gli attori, che sono spesso testimonial delle maison, o partecipano alle loro sfilate (attività concessa dal sindacato perché non direttamente legata all’industria cinematografica): Chalamet non farà urlare le fans in deliquio presentandosi a Venezia in un completo rosso tiziano scollato sulla schiena firmato da Haider Hackermann, ma nulla gli vieta di partecipare a una sfilata del designer colombiano, insomma. Jennifer Connelly, Michelle Williams e Ana De Armas potranno serenamente continuare a essere ambassador di Louis Vuitton, Jessica Chastain continuerà a lavorare con Gucci, Zendaya a fare spot per le borse di Vuitton, e a far riprodurre negli aeroporti quello realizzato per Bulgari, per un ammontare di milioni di dollari non specificato.
A pagare il conto di questa situazione, qualcuno però c’è: sono gli addetti ai lavori, parrucchieri e truccatori, così come gli stylist, che sono spesso pagati dagli Studios, e che, con i red carpet cancellati, dovranno trovare un modo alternativo per pagare l’affitto. Senza avere, tra l’altro, nessun sindacato che ne difenda i diritti al tavolo delle trattative. E in effetti il Business of Fashion si è chiesto, nel pezzo What if fashion went on strike? cosa succederebbe se gli addetti ai lavori della moda si mettessero in sciopero. In fondo, i due universi sono molto simili: vi scorrono immense quantità di denaro, ma il potere è nelle mani di pochi, mentre la reale forza lavoro si barcamena tra lavori saltuari e con stipendi non assolutamente paragonabili al passato. La risposta è che, nel breve termine, non sarebbe possibile perché molti degli stylist, dei truccatori, delle modelle o degli editor sono freelance e non esistono sindacati che mettano insieme le loro voci (da poco sono nati dei sindacati all’interno di Condé Nast e Hearst, così come la Model Alliance, organizzazione no profit che difende i diritti delle modelle). Insomma, il loro potere contrattuale è al momento nullo, se paragonato a un sindacato degli attori come quello americano, nato già nel 1930.
La questione non è di facile risoluzione e se è facile immaginare che per compensare le perdite cinematografiche, gli attori più famosi– gli stessi che, paradossalmente, di quei soldi hanno meno bisogno – intensificheranno i loro accordi economici con il mondo della moda, trovando in ogni occasione pubblica il modo per dimostrare la propria alleanza a una specifica maison (senza arrivare a starlette e influencer di vario genere che concordano persino gli outfit per il tragitto casa-palestra) ci si chiede come la prenderanno gli altri, quelli non rilevanti abbastanza da risultare desiderabili per i grandi brand. Il New York Times, ad esempio, fa notare come si siano alzate proteste quando il capo del sindacato attori, Fran Drescher, all’alba dello sciopero, sia andata in Puglia per partecipare alla sfilata di alta sartoria di Dolce & Gabbana: proteste sedate subito dallo stesso sindacato, che ha confermato all’Hollywood Reporter tramite un rappresentante, che era a conoscenza del viaggio e non rilevava criticità.
Nel frattempo, qualche mese fa, Saint Laurent ha aperto la sua casa di produzione indipendente – il primo nel mondo del lusso – con l’idea di realizzare progetti con registi come Almodovar e Cronenberg. Chissà che non intensifichi le attività in questo momento di stasi o che la moda non decida di guardare lontano da Hollywood e concentrarsi sui divi della musica. D’altronde, negli ultimi mesi, diverse maison hanno messo sotto contratto i divi del K-Pop (l’ultimo in ordine di tempo è stato Versace, che ha nominato global brand ambassador Hyunjin, della band coreana Stray Kids, Kenzo ha optato per il sud coreano Vernon, dei Seventeen e Loewe la pop star Taeyong).
E chissà, quegli abiti del tour promozionale di Barbie che Margot Robbie non può più mettersi, un giorno li vedremo in qualche retrospettiva, come vestigia di una guerra che ha fatto pagare il suo conto salato a gente della quale non conosceremo mai il nome. Ma lo show, in fondo, must go on.