BarbiecoreIl nuovo film di Greta Gerwig, oltre l’hype rimane solo un gadget rosa?

Barbie è un’operazione di marketing fatta a tavolino, in cui la regista statunitense cerca di raccontare l’evoluzione femminista della bambola più famosa di Mattel con una narrazione forse troppo nostalgica e zoppicante, piegandosi alle logiche dei blockbuster di Hollywood. Ma dietro c'è molto di più: le “bimboTok”

Barbie. Courtesy of Warner Bros

Diciamolo subito: è ormai da gennaio che sentiamo parlare di Barbie, il nuovo film di Greta Gerwig uscito in Italia il 20 luglio scorso. Sette mesi in cui la bambola di Mattel, nata nel 1959, ha invaso il web, le TV, i giornali e i social. Perfino Google non si è sottratto a questo barbiecore, tingendosi di fucsia ed esibendo stelline ed effetti speciali. Per non parlare del merch che ne deriva e che in questi giorni ha invaso boutique e siti di e-commerce: rosa confetto dilagante e varianti glitter, tutto logato Barbie.

Barbie. Courtesy of Warner Bros

In America, dove per mandare la gente al cinema devi fare una propaganda degna di una campagna elettorale fuori e dentro i social, allearti con il tuo peggior nemico e coniare neologismi impronunciabili come “Barbenheimer” sperando diventino virali, i due colossi delle produzioni di Hollywood Warner Bros (per Barbie) e Universal (per Oppenheimer) hanno messo da parte qualsiasi rivalità e hanno deciso di fare uscire i due cult movie del 2023 in contemporanea. Ma questo ovviamente solo sul mercato americano, perché noi poveri europei per vedere il (presunto) capolavoro di Christopher Nolan dovremo aspettare fine agosto e la colpa di questo ritardo non è da imputare alle chiusure estive delle sale cinematografiche, ma ancora una volta alle strategie del marketing più bieco, in cui l’hype (un mix di desiderio, attesa e aspettativa) la fa da padrone.

Questo hype è destinato a dominare anche nei prossimi giorni nonostante – diciamolo da subito, senza mezze misure – il film non verrà iscritto nei best movie di tutti i tempi. Non merita insomma di affrontare la calura di un pomeriggio di mezza estate per vederlo su grande schermo quando si ha la possibilità di guardarlo fra qualche mese on demand, seduto comodamente sul sofà. Barbie non è stata la ciliegina sulla torta della regista Greta Gerwig che con questa opera poteva chiudere in bellezza la trilogia dedicata al femminismo iniziata con Lady Bird e proseguita con Piccole donne, e che qui pare aver optato per la strada più semplice: creare un blockbuster rosa fluo, condito da inclusività e desiderio di realizzarsi.

E non ha importanza che siano bambole, t-shirt, scarpe alla moda, gelati, sogni e illusioni. Certo, rendere interessante una trama così elementare non era semplice. Gerwig ci ha provato nei primi cinque minuti, forse i più interessanti dell’intera pellicola, e per farlo ha scomodato il maestro Kubrick, prendendo in prestito la musica di 2001 Odissea nello spazio, rivelando una Margot Robbie in tutta la sua bellezza. Ma minuto dopo minuto, scena dopo scena, là dove tutto è perfetto, rosa e zuccherino, si intravedono le prime crepe narrative: i dialoghi perdono di intensità e tutto sembra una finta parodia dell’esistenza umana priva di spontaneità e di casualità.

Barbie. Courtesy of Warner Bros

Un bel giorno Barbie inizia ad avere pensieri da donna normale: pensieri sulla morte, aspettative disilluse e sogni infranti. Non le resta dunque che affrontare un lungo viaggio spazio-temporale per chiudere quella porta che collega gli umani alle bambole. Il viaggio nel Real world cambierà tutto: Ken (interpretato da Ryan Gosling) scopre il patriarcato e con un colpo di Stato cercherà di instaurarlo anche nella sorridente Barbieland, mentre Barbie scoprirà la sorellanza con le altre Barbie, ritroverà sé stessa e si scoprirà finalmente donna. Idea trita e ritrita già vista vent’anni fa nella Rivincita delle bionde in cui Reese Witherspoon da fidanzatina sexy diventa avvocata di grido, senza rinunciare al tacco 12 e agli abiti succinti rosa confetto.

Insomma, il film pecca di autorialità, di messaggi scontati e di non aver avuto il coraggio di affrontare il femminismo e quello che ne deriva con un linguaggio moderno per arrivare una volta per tutte alla Gen Z. Forse Gerwig, prima di scrivere la sceneggiatura, avrebbe dovuto farsi un giro su TikTok e scoprire che sul social tanto amato dai giovani imperversano le bimbogirl: belle, sexy e dotate di cervello che incarnano la quarta ondata del femminismo made in Usa, che odiano Trump e i trumpiani e che combattono il patriarcato in mise degne di Paris Hilton e Britney Spears. Ecco, forse Gerwig avrebbe dovuto ispirarsi più alle #bimboTok e al bimboism per reinterpretare in chiave moderna i best seller di Mattel.

Alla Gerwig va comunque riconosciuto un merito, anzi due. Il primo è quello di averci ricordato che Barbie può esistere anche senza Ken, ma non si può dire il contrario, relegandolo a vita in un ruolo secondario da toy boy. Il secondo è quello di averci fatto scoprire l’esistenza di Alan e Midge, interpretati rispettivamente da Michael Cera ed Emerald Fennell, due prodotti Mattel ritirati dagli scaffali per non essere politically correct. Il primo definito Ken’s Best Buddy, il miglior amico di Ken, è diventato grazie al film una nuova queer icon, fomentando sul web voci di una possibile fluidità di Ken; mentre Midge – classe ‘63, ma rilanciata nel 2000 nel set Happy Family, con tanto di bambolotto estraibile – fu ritirata dalla produzione dopo solo due anni per le continue lamentele ricevute dalla Mattel da parte dei clienti che denunciavano la casa di giocattoli per incitamento alla gravidanza giovanile. Non c’è dunque da meravigliarsi se entrambi sono presenti sul cartellone promozionale del film. «Non è importante come se ne parli bene o male, l’importante è che se parli», diceva Oscar Wilde. E questo Greta Gerwig lo sa bene. Molto bene.

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