Meno male che non ho visto “Barbie”, così posso risparmiare al mondo lo spettacolo d’arte varia del delirio speculare che ha assalito chiunque abbia visto “Barbie” e abbia uno spazio su un giornale, un account Instagram, una cassetta della frutta a Hyde Park, e intenda quindi dirci che “Barbie”, un film che prende una bambola di plastica e ne fa metafora del mondo, è o la fine della civiltà o l’inizio della rivoluzione – ma comunque è una cosa mai vista.
Meno male che vivo nella provincia più svantaggiata dell’impero, dove il dualismo “Barbie”/“Oppenheimer” ce lo siamo risparmiato: “Oppenheimer” esce a fine agosto, e sospetto che nessuno lo userà per spiegarci il mondo, per molte ragioni riducibili a una: gli italiani non vanno al cinema.
Gli italiani non vanno al cinema, e il fatto che metà di coloro che scrivono di “Barbie” (la metà convinta che un film su una bambola sia più indicativo dello stato dell’emancipazione femminile di quanto lo sia Giorgia Meloni al governo o Stefania Auci in classifica o Taylor Swift negli stadi) ci spieghi che sono stratosferici gli incassi che nei primi quattro giorni sono stati più o meno quelli che “Quo vado?” aveva totalizzato in un giorno, beh, quei numeri (e l’incapacità d’interpretarli d’una nazione devastata dalle materie umanistiche) sono la dimostrazione che gli italiani al cinema non ci vanno.
Vanno a quelle due postmodernità che sono le esperienze e gli eventi (che il dio delle parole mi perdoni). Sono andati a vedere “Barbie”, nei dì di festa, meno di quanto ci fossero andati il giovedì: perché andare a vedere “Barbie” non è andare al cinema, è – proprio come guardare le storie di Chiara Ferragni o leggere l’articolo di Alain Elkann – un modo di non restare esclusi dalla conversazione collettiva. Ci vai subito, così sai di cosa parlano tutti e non ti devi procurare una personalità.
Ci vai subito, dopo che da mesi tutti quelli (e soprattutto tutte quelle) che vogliono esistere nel dibattito pubblico (un dibattito ormai fatto di gif e condivisioni, mica di idee) hanno postato il loro bravo meme (mi scuso per la parola) con filtro di Barbie, e come sempre dio (o chi per lui) ci conservi Chiara Ferragni, che per dire che era andata a vedere “Barbie” e le era piaciuto tanto si è fatta pagare, l’unica a trattarlo come fosse un film e non una conferma della propria esistenza nel mondo.
Anche in America l’incasso di “Barbie” è calato dal venerdì alla domenica, ma quello è un paese che al cinema ci va: le proiezioni di “Oppenheimer” delle sei di mattina (sì, non è un errore di battitura) erano esaurite. E “Oppenheimer” non ha granché dell’evento: neppure ci vai in costume di scena.
Le vestali del femminismo (per così chiamarlo) instagrammatico ci spiegano da giorni che le ragazze in rosa che vanno a vedere “Barbie” con le amiche sono la vittoria d’un po’ tutto: della rivoluzione e dell’industria cinematografica, dello specifico femminile e di quello filmico, di America Ferrera e di Carla Lonzi. E io da giorni penso meno male che non erano nello specifico femmine quelle che si vestivano da cretine per andare a vedere il “Rocky Horror Picture Show” alle proiezioni di mezzanotte, meno male che non erano in particolare femmine quelli che si vestivano da Darth Vader per andare a vedere “Guerre stellari” (o come s’intitola in questo secolo), meno male che loro li ho potuti sempre considerare dei poveri imbecilli privi di senso del ridicolo senza prendermi della sessista.
Negli Stati Uniti, nel weekend d’esordio, “Barbie” ha incassato 155 milioni. Il film che aveva per rivale (e ha superato: aveva ad aprile fatto 146 milioni nel primo weekend) come miglior incasso del 2023 era “Super Mario Bros”.
Se dici che centoquarantasei milioni in un weekend per un film tratto dal videogioco dell’idraulico coi baffi sono l’ennesima conferma dell’infantilizzazione del pubblico adulto, del primato dei prodotti imbecilli, dell’irreversibilità della distruzione dei consumi culturali non per sedicenni perpetui, sei una raffinata sociologa che pone un serio problema del quale peraltro non c’è critico culturale che non sia consapevole, in un secolo in cui tutti i grandi incassi sono roba di fumettoni e supereroi.
Se dici che forse anche una bambola di gomma non è esattamente un ritorno alle storie sofisticate per adulti, sei una schifosa sessista che vuole il burqa per le adulte vestite di rosa.
Lo so, lo so: non l’ho visto, cosa ne so che Greta Gerwig non ha preso una bambola di gomma e ne ha fatto possente metafora? Peggio: lo so senza averlo visto, perché – esattamente come anche senza avere visto “Proposta indecente” sappiamo tutti che Redford offre a Demi Moore un milione di dollari per andarci a letto – delle ridondanti metafore e dei monologhi contenutisti e della scena in cui – santo cielo – Barbie scopre che si può invecchiare avete fatto in cinque giorni tanti di quegli editoriali e di quelle raccolte di penzierini che non c’è mica alcun bisogno di vederlo (è l’unico vero segno di vittoria: se ti conosco senza averti consumato, sei un classico istantaneo della cultura popolare; pure quella che «Festivalbar con la cassa dritta» la conosco senza averla mai sentita: chissà perché nessuno ci fa gli editoriali).
Ho bisogno di vederlo per sapere che il monologo sulla difficoltà delle donne l’hanno affidato ad America Ferrera così voialtre vestite di rosa in platea non pensate «ma che difficoltà puoi mai avere, strafiga come sei?» come pensereste se monologasse Margot Robbie?
Meno male che sono in giro da tanto, e le bionde che paiono frivole ma a colpi di metafore e abiti rosa fanno avanzare la condizione femminile le ho viste settant’anni fa (“Gli uomini preferiscono le bionde”, consiglio la visione anche sul divano in mutande, senza bisogno di costumi di scena) o ventidue anni fa (“La rivincita delle bionde”).
È molto bella l’intervista di Maureen Dowd a Ann Roth, costumista d’un po’ tutto da “Una donna in carriera” a “Una squillo per l’ispettore Klute”, e novantunenne che sulla panchina risponde, a Barbie che scopre che invecchiare è bello, «Lo so»; ma quella che avrei davvero voluto leggere è un’intervista a Reese Witherspoon, che ricordasse a questa epoca di opinioniste malate di presentismo che il giochino dell’empowerment senza smettere di vestirsi di rosa lei l’ha fatto prima, l’ha fatto senza tirarsela tanto, e l’ha fatto quando ancora esisteva il cinema.
Meno male che “Oppenheimer” non è uscito in contemporanea a “Barbie”, almeno le Susan Faludi di questo secolo per un mesetto ancora toccano solo agli americani: ho visto una – con immancabile «PhD» nella bio di Twitter – formulare in un rigo il suo j’accuse al patriarcato. Per i primi venti minuti di “Oppenheimer”, non c’è un personaggio femminile parlante.
Meno male che ci sono pensatrici col dono del presentismo, opinioniste che non sono in giro da tanto e per cui tutto accade per la prima volta, anche che escano lo stesso giorno due film che incassano uno sfracello. Se guarissero dal presentismo, gli toccherebbe trarre la conclusione che incassare molto all’uscita fa di te un film atteso, ma non necessariamente un film bello o memorabile. Se guarissero dal presentismo saprebbero che, la penultima volta che negli Stati Uniti due film usciti lo stesso giorno avevano incassato più di cinquanta milioni di dollari l’uno, era il 2012. E uno dei due film in effetti lo ricordiamo, ma per la sua involontaria ridicolaggine. S’intitolava “Prometheus”.