A maggio, una fila interminabile arrivava fino alle porte di un negozio Shein nel centro di Parigi, dove il brand di abbigliamento cinese aveva aperto un “pop-up store” che in quattro giorni ha accolto migliaia di persone. L’ultimo giorno, alcuni militanti del movimento ecologista Extinction rebellion tentavano di convincere i clienti di smettere di acquistare presso la multinazionale a causa del suo impatto sociale, sanitario ed ecologico, con poco successo.
Diventato recentemente, nell’immaginario comune, uno dei mostri del fast fashion, Shein è il simbolo di un’industria, quella della moda, i cui danni sul clima e l’ambiente, oltre che sui diritti umani, sembrano ormai incontrollati.
Bonus anti-spreco
La Francia non fa eccezione. I Francesi «buttano settecentomila tonnellate di vestiti ogni anno», e i due terzi «finiscono nelle discariche», ha ricordato martedì 11 luglio Bérangère Couillard, segretaria di Stato all’Ecologia, durante una visita ai locali di un incubatore parigino, il più grande in Europa, dedicato alla moda responsabile.
È qui che la ministra ha annunciato l’introduzione di un bonus “riparazione” dei prodotti tessili, con l’obiettivo di incitare i cittadini a far riparare pantaloni, scarpe o camicie piuttosto che ricomprarli, nuovi. «A partire da ottobre, i consumatori potranno essere accompagnati nella riparazione delle loro scarpe e vestiti», ha precisato. Concretamente, il bonus, che sarà applicato direttamente sulla ricevuta della riparazione, andrà dai sei ai venticinque euro: sei euro per una cucitura, otto euro per rifare una suola e dai dieci ai venticinque euro per un’imbottitura.
Per poterne usufruire, però, bisognerà recarsi presso una sartoria o un calzolaio “certificato”. Al momento l’obiettivo è di arrivare a cinquecento professionisti certificati, e per ora solamente duecentocinquanta hanno fatto domanda. Il rischio è infatti che non ci siano abbastanza negozi che applichino il bonus e che questi non siano ben distribuiti sul territorio.
Se occorresse ad esempio percorrere decine di chilometri per usufruirne, l’obiettivo ecologico della misura ovviamente verrebbe meno. La segretaria di Stato ha allora invitato tutti i professionisti del settore ad entrare nel sistema e a richiedere la certificazione. Oltre ad accompagnare i clienti, l’iniziativa vorrebbe infatti sostenere anche i negozi che propongono le riparazioni per «ricreare posti di lavoro», ha detto
Ad attribuire la certificazione sarà l’eco-organismo “Refashion”, incaricato dal governo di accompagnare l’industria tessile verso un’economia più circolare. E sarà questo stesso organismo a gestire il fondo di centocinquantaquattro milioni di euro stanziati dal governo sul periodo 2023-2028, come ha spiegato il gabinetto della segreteria di Stato all’Agence France-Presse (Afp).
Intervistato dal canale televisivo francese France 2, l’organismo ha anche risposto ad un’altra preoccupazione sollevata dopo l’introduzione della misura: sartorie e calzolai potrebbero approfittarne per aumentare i prezzi. Refashion promette allora la più grande trasparenza: le ricevute dovranno essere dettagliate per permettere al cliente di rendersi conto di un eventuale aumento del prezzo.
Economia circolare
L’impegno della Francia sulla riduzione degli sprechi non è nuovo. In campo tessile, il bonus rientra infatti in una riforma più vasta del settore portata avanti dal governo dalla fine del 2022. Tra i suoi obiettivi vi è quello di sostenere finanziariamente gli organismi specializzati nel reimpiego dei vestiti e di strutturare e migliorare il settore del riciclaggio. La riforma dovrebbe beneficiare di un finanziamento di circa un miliardo di euro tra il 2023 e il 2028, ricavato dagli eco-contributi di produttori, importatori e distributori secondo il principio “chi inquina paga”. Questa rientra a sua volta in una legge, del febbraio 2020, detta “antispreco per un’economia circolare” (Agec).
Oltre a stabilire ad esempio la fine dell’utilizzo in commercio di imballaggi in plastica monouso entro il 2040, questa legge ha già introdotto un altro “bonus riparazione” a dicembre 2022 per quel che riguarda gli elettrodomestici e i dispositivi elettronici. Con un funzionamento simile a quello del settore tessile, l’obiettivo di questo bonus è di aumentare del venti per cento il numero di riparazioni all’anno, prolungando la vita di lavatrici, lavastoviglie, televisori e così via.
Ma ad aprile, a quattro mesi dal lancio, lo stesso ministero della Transizione ecologica constatava in un comunicato che i primi risultati non si sono rivelati all’altezza delle aspettative a causa della lentezza del dispositivo. Per questo il governo ha annunciato diverse misure di miglioramento del bonus, tra cui l’aumento di alcuni suoi valori, l’aggiunta al fondo riparazione degli schermi rotti degli smartphone e, recentemente, la creazione di un Comitato dedicato alla riparazione che rappresenterà tutte le parti coinvolte.
Si tratta di misure richieste dall’associazione “Halte à l’obsolescence programmée”, che si batte per prodotti più durevoli e riparabili. Pur compiacendosi di questi passi avanti, l’associazione continua a chiedere una maggiore comunicazione sul bonus, sostanzialmente sconosciuto, e soprattutto denuncia un problema a monte: la progettazione e il commercio di piccoli elettrodomestici, come il tostapane o l’asciugacapelli, ad oggi difficilmente riparabili.
Sovrapproduzione
La produzione galoppante rimane infatti la questione principale anche in campo tessile. Secondo Refashion, nel 2022 in Francia sono stati venduti 3,3 miliardi di vestiti, scarpe e tessuti per la casa, cinquecentomila in più rispetto al 2021. Se gli incentivi alle riparazioni dei prodotti tessili e a un’economia circolare sono necessari e positivi, è legittimo chiedersi quanto effettivamente possano fare la differenza.
Alcuni, infatti, ci vedono una goccia d’acqua nel mare della sovrapproduzione. Lo spiega ad esempio un documento pubblicato a gennaio dall’associazione “Les Amis de la Terre France” che sottolinea come «da vent’anni, in Francia, le quantità di vestiti immessi sul mercato siano raddoppiate fino ad arrivare a quarantadue vestiti per abitante ogni anno». Di fronte a una tale produzione, misure come il riciclo e il riutilizzo dei prodotti appaiono purtroppo futili.
«I nostri dirigenti sbagliano bersaglio concentrandosi solamente sull’economia circolare, senza rimettere in discussione le quantità immesse sul mercato. Se riciclo e riutilizzo sono utili, da soli sono diventati la garanzia greenwashing di un’industria che cerca di mantenere i suoi livelli di produzione. Oggi, solamente l’uno per cento dei prodotti tessili può essere realmente riciclato, e anche se le capacità di riutilizzo e di riparazione aumentano, queste restano irrisorie di fronte alla quantità di vestiti commercializzati», aggiunge l’associazione.
La priorità dovrebbe allora essere quella di agire a monte, riducendo la produzione. “Les Amis de la Terre” propone le seguenti novità: fissare un tetto alle quantità commercializzabili di prodotti tessili importati; escludere i prodotti inquinanti e ottenuti con lo sfruttamento dei lavoratori; vietare le spedizioni all’estero, ricollocare una parte della produzione tessile in Francia. Solo con misure così ambiziose si può infatti sperare di frenare l’impatto di un’industria, quella della moda, che da qui al 2050 potrebbe generare un quarto delle emissioni globali di anidride carbonica.