Nel 2015 l’industria tessile ha utilizzato globalmente 79 miliardi di metri cubi d’acqua. Per produrre una sola maglietta ne servono 2.700 litri, che coprirebbero il fabbisogno d’acqua di una persona per due anni e mezzo. Sul sito del Parlamento europeo si legge che la produzione tessile è responsabile del 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile, e che il lavaggio degli indumenti sintetici causa il 35% del rilascio di microplastiche nell’ambiente. In più, stando a un report di McKinsey, nel 2018 l’industria dell’abbigliamento ha causato il 4% delle emissioni di anidride carbonica (Co2) globali: sembra poco, ma non lo è. Il Wwf sostiene inoltre che il settore produca annualmente 1,7 tonnellate di Co2. E non è tutto, perché nel 2017 solo il 20% dei rifiuti di abbigliamento è stato riutilizzato o riciclato, e il resto è stato incenerito o è finito in discarica.
Sono cifre che ormai (purtroppo) non destano sorpresa, ma che vale la pena ribadire e contestualizzare, per dare sostanza a un problema che riguarda tutti: aziende, politici nazionali e locali, consumatori, media. Mentre molti brand di moda si impegnano ad applicare concretamente e onestamente il concetto di sostenibilità (non solo ambientale), un colosso del fast fashion come Primark ha aperto il suo store in centro a Milano nel 2022.
Per rendere la filiera della moda più sostenibile non basta intervenire sul riciclo; non basta educare i consumatori; non bastano etichette che certificano la qualità dei materiali di una determinata azienda. Perché se quell’impresa rimane schiava delle logiche della sovrapproduzione, buttando via milioni di capi invenduti e abbandonando nei magazzini tonnellate di fibra non utilizzata, siamo punto e a capo.
Bisogna intervenire a livello di tracciabilità della filiera, educare i consumatori (soprattutto i più giovani); creare degli ecosistemi per il recycling anche considerando le fasi intermedie (come il disassemblaggio del capo); ripensare le logiche produttive e di distribuzione. E il tempo è poco. Tutti questi temi sono stati trattati approfonditamente all’interno del libro “L’impresa moda responsabile. Nuove strategie per le catene del valore sostenibili e circolari” (Egea), di Francesca Romana Rinaldi e Salvo Testa.
Con la professoressa Francesca Romana Rinaldi, consulente sui temi della sostenibilità e direttrice del Monitor for Circular Fashion del Sustainability Lab SDA Bocconi, abbiamo parlato dei passi avanti che il settore della moda ha fatto (e dovrà fare) per limitare il suo impatto ambientale.
La prima edizione de “L’impresa moda responsabile” è stata pubblicata nel 2013: cosa è cambiato in questi nove anni?
«È successa una rivoluzione, e il Covid è stato un acceleratore del cambiamento, della messa in evidenza di alcune esigenze. Nel 2013 forse era troppo presto: c’era interesse ma la nicchia di aziende e consumatori interessati era piccola. Uno dei nuovi topic, solamente menzionato nel libro della prima edizione ma molto approfondito nella nuova edizione, è il tema della tracciabilità e della trasparenza di filiera. Il libro del 2022 deriva dall’esigenza di andare contro il greenwashing, che significa anche comunicare troppo presto dei risultati non sono evidenti all’interno della catena del valore. Oppure comunicare in maniera poco dettagliata. Lavorare sulla trasparenza e la tracciabilità è il nodo per combattere il greenwashing. L’altra novità è la circolarità, anch’essa solo menzionata nel primo libro».
Le operazioni di upcycling, ad esempio le scarpe realizzate con i materiali più disparati, sono applicabili su larga scala e possono fare davvero la differenza? Oppure rimangono iniziative accattivanti a livello mediatico ma prive di sostanza?
«L’upcycling è un recycling che dà maggior valore in termini di funzionalità al materiale che si utilizza in partenza. Con upcycling parliamo anche di utilizzo di scarti “pre-consumer” che possono essere riutilizzati, come gli scarti di magazzino. In questi casi si possono tranquillamente fare operazioni su larga scala. Il potenziale è enorme: stanno nascendo tanti progetti sul riutilizzo degli scarti di produzione, prima che raggiungano il consumatore finale. La vera sfida è nel “post-consumer”: è più complicato perché non c’è un’armonizzazione normativa a livello europeo e a livello internazionale».
Il fast fashion si sta indebolendo o è impossibile da sradicare?
«I player del fast fashion hanno modificato le abitudini d’acquisto del consumatore. I cambiamenti possono avvenire non solo lavorando sull’offerta, ma anche sulla domanda. Serve un grandissimo impegno delle istituzioni per sensibilizzare il consumatore, per lavorare sull’estensione della vita del capo, per rieducare alla qualità. Nel momento in cui il consumatore non è educato su questi temi, punterà su Primark e simili. Ci deve essere una forte campagna mediatica che passa dalle istituzioni, non solo dal mondo dell’education. Un po’ come è avvenuto per il fumo».
Il nuovo pacchetto di proposte della Commissione europea contro il fast fashion è un buon passo avanti? Le istituzioni nazionali e sovranazionali dovrebbero muoversi con più insistenza per arginare questo fenomeno?
«La Commissione europea, nella comunicazione del 30 marzo 2022, ha affermato che il fast fashion sarà a breve out of fashion. Per arrivare a questo obiettivo, ossia la risoluzione del problema della sovrapproduzione e del consumismo sfrenato, occorre lavorare sulle seguenti linee. Da un lato – come già detto – sull’educazione al consumatore giovane, che deve acquistare meglio e meno: non deve trattare i capi come se fossero caramelle. Dall’altro bisogna creare le condizioni per cambiare la gerarchia del rifiuto: noi non dobbiamo usare il recycling come unica via, bisogna percorrerne altre».
Quali sono queste vie alternative?
«Usare meglio le risorse che abbiamo, prevenire il rifiuto, riutilizzare il più possibile i prodotti. Poi arriva la fase del riciclaggio, per generare una nuova vita del prodotto. Nel recycling è necessaria un’infrastruttura, ma prima bisogna fare in modo che il prodotto venga raccolto correttamente. A gennaio 2022 in Italia doveva essere già implementata la raccolta differenziata del tessile. Ciò non sta avvenendo perché non c’è un’infrastruttura adeguata. Si devono creare degli ecosistemi per il recycling, anche considerando fasi intermedie come il disassemblaggio del capo».
I grandi brand di abbigliamento acquistano enormi quantità di tessuto, che inevitabilmente avanza e rimane nei magazzini. Acquistare quella fibra e produrre nuovi capi è una strategia efficace?
«Sono nate tante realtà di questo tipo negli ultimi anni. Quella che conosco meglio è il progetto QUID, una cooperativa sociale. Loro acquistano a prezzi calmierati – o via donazione – degli stock di tessuto rimasti invenduti, che arrivano da tante aziende di diverso posizionamento. E poi li usano per produrre altri capi. È un bel progetto anche perché la manodopera è composta da persone in condizioni di fragilità. Le aziende, in futuro, non potranno più non utilizzare le risorse rimaste negli stock a causa della waste directive del 2018: nel momento in cui entrerà in vigore in tutti i Paesi, le aziende saranno obbligate a usare questi scarti. Scarti che sono delle risorse. Per essere realmente sostenibili bisogna lavorare sui processi».
La moda sostenibile è davvero “roba per ricchi”?
«Dovremmo sorprenderci del fatto di poter pagare una maglietta 2 euro. Ecco perché bisogna rieducare il consumatore. Ma non possiamo nemmeno puntare il dito solo sul consumatore. La responsabilità è anche dell’azienda. È un insieme di fattori che porta la gente a pensare che la moda sostenibile sia per i ricchi. Ci sono comunque brand accessibili, come ad esempio Altromercato. Indubbiamente c’è ancora tanto da fare. È necessario generare un rapporto virtuoso tra grandi aziende e piccole aziende per sostenere la crescita, la ricerca, lo sviluppo. Così, forse, i prezzi si abbasseranno».
Il settore dell’abbigliamento perderà inevitabilmente occupati a causa della sua “conversione green”. Una perdita che verrà in parte compensata con nuovi ruoli e nuovi segmenti?
«Ci sarà bisogno di una riqualificazione, di un investimento nella formazione di nuovi (e aggiornati) ruoli, nuove competenze. Come accade nell’automotive e negli altri settori che si stanno rivoluzionando. Serviranno nuovi ruoli per la creazione di un nuovo ecosistema di recycling. Altri ruoli verranno ripensati, come quello di chi lavora in negozio. Altri ancora dovranno essere creati, come la figura che si occuperà delle operazioni di disassemblaggio».