La cura VladimiroCome la propaganda di Putin ha fatto il lavaggio del cervello ai giovani russi

Nel suo libro “Z Generation”, Ian Garner spiega come il Cremlino ha creato una realtà alternativa che promuove valori ultranazionalistici e giustifica i crimini di guerra, incoraggiando gli utenti adolescenti a rilanciare i meme che giustificano le nefandezze del regime

LaPresse

Alina ha diciannove anni e vive a Nizhny Tagil, una città industriale russa nella regione degli Urali. Studia graphic design all’università e sogna di trasferirsi a Mosca per lavorare nel mondo high-tech. Nel tempo libero esce con il suo fidanzato, Sergey, con cui va al cinema o a bere in qualche locale. La ragazza riempie il suo profilo VK, vale a dire VKontakte, il Facebook russo, di tutto ciò che le piace. Dal make-up e la moda alle foto dei suoi viaggi, fino ai film e le serie tv che la appassionano. Uno dei suoi personaggi preferiti è Arya Stark di Game of Thrones, interpretata da Maisie Williams. Per Alina, Arya è un modello «feroce» di femminilità moderna.

Ma da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, la home VK di Alina è cambiata. È sparito il cinema americano e sono apparsi meme della Casa Bianca in fiamme a “Fashington DC” e immagini di sacerdoti ortodossi che benedicono truppe militari. Niente più nail design, ma gruppi con nomi come “REAL Ukraine” o “The Russian Spring”, in cui quotidianamente vengono divulgate nuove spettrali “scoperte” sui pericoli che incombono sul futuro della Russia. Anche il volto di Sergey appare meno frequentemente. Al suo posto c’è quello del presidente Vladimir Putin, che, come scrive Alina su VK, è «un dono di Dio».

Ian Garner, storico della cultura sovietica e della propaganda bellica, ha pubblicato un libro, “Z Generation”, in cui spiega come il regime putiniano abbia coercito culturalmente, psicologicamente e politicamente le nuove generazioni di russi tramite la promozione di una versione distorta della realtà. Lo studio di Garner, a sua volta ripreso da un articolo di Neil Buckley pubblicato sul Financial Times, mostra come i giovani in Russia siano su più fronti bombardati dall’idea che il dovere politico e morale della civiltà russa sia quello di sconfiggere un occidente invece incivile e immorale.

Il regime ha dipinto un’immagine della famiglia russa, naturalmente cristiano ortodossa, il cui codice valoriale è quello del militarismo, del patriottismo, della mascolinità e, con la guerra in corso, della violenza come forza purificatrice del mondo. L’invasione su vasta scala dell’Ucraina ha fornito infatti “l’ingrediente finale” a un Paese che, come notato dallo storico Timothy Snyder, presentava già caratteristiche di un regime fascista (un leader forte, un governo autoritario). Le truppe hanno persino ormai un simbolo simile a una svastica, cioè la “Z” utilizzata dai veicoli militari russi ormai emblema della loro guerra di “liberazione”.

Questa iconografia è supportata in Russia da molte istituzioni, non solo governative, a partire dalla chiesa fino allo sport, e in particolare, ai media. La potenza dell’indottrinamento di Putin è infatti costituita non solo dal modellamento dei vari organi della società locale, ma anche dalla creazione nella mente del popolo di un vero e proprio universo parallelo rispetto alla realtà dei fatti.

I poteri totalitari, infatti, hanno sempre ben equipaggiato la loro macchina propagandistica. Da una parte distorcendo le informazioni, dall’altra costruendo con cura gli ambienti in cui riversarle e, da lì, farle serpeggiare. Si pensi, ad esempio, all’uso della radio da parte di Mussolini o alla massiccia contraffazione di documenti di cui si è adoperata la propaganda nazista. Oggi però, come ha spiegato lo storico Mikkel Bolt Rasmussen, l’ideologia fascista non crea i movimenti di massa solo tramite partiti formali o istituzioni politiche concrete, bensì attraverso la cultura popolare e, naturalmente, internet.

Negli spazi online i governi ultranazionalisti e razzisti moderni si autoalimentano tramite il loro stesso pubblico. L’immediatezza della comunicazione in rete ha permesso una semplificazione estrema dell’associazione, ed eventuale dissociazione, tra le persone. Secondo Garner, pertanto, in una dimensione in cui la performance schiaccia facilmente la realtà, il fascismo è incline a mettere in scena quello che Bolt Rasmussen ha definito «un simulacro della società». L’utente social è invece incline a farlo prolificare.

Il Cremlino si è mosso nel tempo per controllare sempre più i social media. Ha bandito Meta (a eccezione di WhatsApp) per “attività estremiste” e ha fortemente limitato Twitter e TikTok. Un anno fa Putin ha poi firmato una legge che ordina fino a 15 anni di carcere per qualsiasi condivisione di informazioni od opinioni sulla campagna in Ucraina che lo Stato ritenga falsa. Ad esempio, non è possibile utilizzare la parola “guerra” per definire l’intervento militare della Russia. Per il governo è invece decisamente preferibile l’espressione «operazione militare speciale».

Il regime putiniano opera ormai tanto nel reale quanto nel virtuale, fondendo le due dimensioni in una tentacolare e inquietante rilettura della storia contemporanea e trasformando il Paese in un regno distopico di informazioni corrotte. E se magari, paragonati all’isolazionismo informativo della Corea del Nord, i bot del governo russo potrebbero sembrarci banali, secondo Garner sono una delle chiavi interpretative del sostegno popolare giovanile a Putin.

Il linguaggio social che supporta i crimini di guerra, dai commenti ai meme, contribuisce infatti a normalizzare e, di conseguenza, incoraggiare quella lettura degli eventi. E così essa, pian piano, diventa nella mente degli utenti la verità. Una verità sì caotica e storicamente imprecisa, ma pericolosamente reale.

Così oggi sui profili social russi si racconta che sono le truppe di Kyjiv, non quelle di Mosca, che commettono atrocità. Che sono le forze statunitensi e quelle della Nato che minacciano la Russia, non il contrario. E che sono stati proprio i neonazisti ucraini e i loro “protettori occidentali” che speravano in un conflitto interno in Russia, come è si è verificato lo scorso fine settimana con l’insurrezione (fallita) di Yevgeny Prigozhin e i suoi paramilitari Wagner.

E mentre nei gruppi social di cui fa parte Alina torna sempre più popolare il vecchio slogan sovietico borba za mir (cioè, “battaglia per la pace”), nelle zone ucraine occupate i locali testimoniano come anche lì il Cremlino stia tentando di diffondere l’idea dell’invasione come non solo un necessario atto di autodifesa, ma addirittura un altruistico tentativo di liberare gli ucraini dai nazisti presenti tra loro.

«Questi nuovi arrivati ​​non hanno idea di cosa sia successo. Guardano la propaganda in TV e pensano che siamo stati salvati dai neonazisti», ha detto un cittadino di Mariupol al The Guardian, riferendosi ai cinquantamila cittadini russi che si sono trasferiti in città dopo l’occupazione. L’indottrinamento è in atto anche nei confronti dei giovani ucraini stessi. Le scuole a Mariupol sono state infatti riaperte, ma i programmi delle materie sono stati cambiati e la lingua ucraina è bandita. «Il lavaggio del cervello è molto forte», ha detto un altro locale sempre al The Guardian. «Ai bambini viene detto che il presidente della Russia è il migliore, e l’Ucraina è piena di gente cattiva e fascisti. È come l’URSS».

Per quanto Garner non possa naturalmente dimostrare quanto sia ormai radicata la arendtiana fede putinista tra i giovani, le pagine finali del suo libro lasciano intravedere un labile auspicio di cambiamento. Le poche ma coraggiose proteste di cittadini russi contro il governo dimostrano infatti che il libero pensiero non è morto. Ed esperienze come queste fanno sperare che forse si stia minando pian piano l’apparente l’inattaccabilità, virtuale e no, del regime del Cremlino (e del profilo di Alina).