Pochi giorni prima di morire, collegato telefonicamente alla trasmissione “Il Testimone” di Giuliano Ferrara, Enzo Tortora rispose così all’allora presidente dell’Associazione nazionale magistrati Alessandro Criscuolo, che gli chiese retoricamente cosa la magistratura associata avesse mai voluto difendere con quel silenzio sulla macelleria giudiziaria napoletana, di cui era (per lui ingiustamente) accusata: «Volevate difendere la vostra cattiva fede».
Come ha giustamente ricordato Guido Vitiello nella presentazione a Bologna del libro “La giustizia penale di Alessandro Manzoni” di Gaetano Insolera, l’idea di Tortora sugli orrori della giustizia italiana mutò profondamente nel corso della vicenda di cui fu vittima e si fece, potremmo aggiungere, a un tempo più politica e più inconsolabile.
All’inizio Tortora pensava che la giustizia «per pentito dire» fosse semplicemente un prodotto di norme eccezionali, cambiate le quali le cose sarebbero potute tornare alla normalità. Alla fine, forse anche per il modo in cui il risultato del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati fu impudentemente ribaltato in Parlamento nel giro di pochi mesi, Tortora si convinse che fosse vero piuttosto il contrario: le norme eccezionali servivano alla mostruosa normalità della giustizia italiana e alla cattiva fede della magistratura associata, di cui i politici – ricordò sempre Tortora in quella occasione, rivendicando il privilegio di potere «ridere in faccia al dottor Criscuolo» – si erano semplicemente messi a «tirare il carretto».
A proposito del concorso esterno in associazione mafiosa, stiamo assistendo a una dinamica analoga, per non dire identica a quella a cui Tortora, per estremo oltraggio, fu costretto ad assistere nei suoi ultimi giorni di vita: c’è il solito carretto della cattiva fede giudiziaria trainato dal solito corteggio di politici zelanti e impettiti, un po’ interessati a lucrare la rendita dell’intransigenza antimafia, un po’ a scampare il discredito per il sospetto di mafioseria, che colpisce implacabile chiunque sostenga la necessità di ristabilire un minima di certezza del diritto per un reato di invenzione giurisprudenziale, definito eufemisticamente «liquido» o «fluido» dalla dottrina e quindi capace di adattarsi a qualsivoglia scorribanda inquirente o processuale.
Così siamo arrivati al punto che invocare il principio della riserva di legge in materia penale e quindi la necessità che sia il legislatore a stabilire i confini di questo ircocervo del concorso eventuale (art. 110 c.p.) in un reato a concorso necessario, come l’associazione a delinquere di stampo mafioso (all’art. 416 bis c.p.), è considerata una pretesa eversiva, oltre che una prova di intelligenza con il nemico.
Anche invocare il principio di legalità, cioè la subordinazione alla legge dell’attività degli organi dello Stato (magistrati compresi), suona terribilmente sospetto, visto che capovolge il paradigma su cui il concorso esterno di fonda, dove è lo stesso reato, cioè la stessa legge, un prodotto di interpretazione giudiziaria e non solo la sua applicazione al caso concreto.
Per non parlare della richiesta di subordinare anche il concorso esterno in associazione mafiosa ai principi di determinatezza (precisando a quale fatto concretamente verificabile si applichi la norma incriminatrice) e tassatività (obbligando il giudice ad applicare la norma solo quando il caso concreto si riconnetta alla sua fattispecie astratta): anche questo è ufficialmente un affronto all’autonomia e alla libertà del potere togato di perseguire le forme di «contiguità compiacente» con i sodalizi mafiosi, che per loro natura sfuggono a una troppo rigida tipizzazione giuridica. Non si vorrà mica agevolare il contributo che colletti bianchi, burocrati e politici felloni offrono agli interessi della criminalità organizzata, con la scusa dei principi fondamentali del diritto penale?
È chiaro che il problema non è neppure più cosa si possa fare per riportare il concorso esterno in associazione mafiosa nell’alveo della legge, perché è chiaro che non si potrà fare assolutamente nulla, se non contestando innanzitutto il pervertimento morale e funzionale del concetto stesso del sistema penale, da cui consegue la grottesca e ricorrente accusa di diserzione dalla guerra alla mafia, alla corruzione e a ogni forma di malaffare, da parte di un potere togato che tutto dovrebbe fare, in uno stato di diritto, fuorché la guerra a qualcuno o a qualcosa.
Si può capire, rabbrividendo, che tutto questo vada a genio a chi pensa che la traduzione del law and order in Italia non possa che essere una certa fascisteria politico-giudiziaria; è però incomprensibile che la difesa senza se e senza ma del concorso esterno à la carte sia diventato il valore non negoziabile della cultura “progressista”. A meno di non ammettere che la cultura “progressista” ufficiale sia semplicemente una parte, non una alternativa di questa tambureggiante fascisteria.