Gastronomika Club OmakasePrima gli italiani, ma dipende come

Si parte dalle stranezze culinarie orientali e si arriva al Cipriani di Venezia, il miglior hotel del mondo secondo la “Top 1.000 Worlds Best Hotels”, per poi passare alla pizza e alla sua cottura a legna, all’accessibilità ai cibi salutari per tutta la popolazione mondiale e infine alla viticoltura anglosassone. Per questo mese il nostro giro del mondo gastronomiko è ancora disponibile per tutti

Foto di Ihsan Adityawarman su Pexels

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Cominciamo con le stranezze, eccovi serviti. Questo post e tutto l’account ci permettono di scoprire quanto possono essere strani rispetto a noi i giapponesi.
Ma i cinesi non sono da meno, e cucinano le rocce. Sì, avete capito bene: non “qualcosa di simile a”. Proprio i sassi, ma li aromatizzano così che siano saporiti e possano essere succhiati. Si chiama suodiu e si fa così. Astenersi giudicanti, diverse culture provocano differenti risultati. Anche nel piatto.

Siamo da meno, in quanto a bizzarrie? Forse no, ma in quanto a grandeur nessuno batte i francesi, che si sono inventati persino il campionato mondiale delle patatine fritte. Si terrà per la prima volta ad Arras il 7 ottobre. Le iscrizioni sono aperte. Intanto, sul campionato del mondo degli hotel, la “Top 1.000 World’s Best Hotels” di proprietà francese abbiamo avuto la meglio: pochi giorni fa abbiamo appreso che il miglior hotel del mondo si trova in Italia, per la precisione a Venezia: il Cipriani è in testa a questa prima classifica, seguito dal Peninsula Chicago (Stati Uniti), dal Waldorf Astoria Los Cabos Pedregal (Messico) e dal Cheval Blanc St-Barth (Francia).
Ma è un francese ad aprire uno dei più chiacchierati nuovi ristoranti italiani a Parigi: al Riviera, ristorante gestito da Mathieu Pacaud con Laurent de Gourcuff e Paris Society, i piatti mediterranei dialogano in un arredamento progettato da Hugo Toro. Insomma, ci rubano in casa, e nemmeno protestiamo. Oppure, e potremmo anche vederla diversamente: la cucina italiana è talmente cool in Francia che persino i cugini sono costretti a prepararla. Sì, così suona decisamente meglio. La bellezza dei differenti punti di vista.

Tempi di pizza, con due notizie contrapposte. Il Dipartimento per la Protezione Ambientale di New York ha di fatto chiesto di abolire il forno a legna alle pizzerie della città per ridurre le emissioni di carbonio fino al 75%. Elon Musk ha fatto sapere che non è d’accordo, noi invece lo siamo: in fondo, è solo un antico retaggio culturale che non aggiunge niente (se non tossicità!) alle nostre pizze. Meglio un elettrico controllato che un forno a legna usato male, sicuramente per la nostra salute, fuori e dentro le pizzerie. E la tradizione? Teniamola nell’impasto, nel gesto, nei condimenti. Che poi è quello che facciamo dai tempi di Pompei, dove è stata ritrovata proprio un’antenata della pizza in un affresco appena riportato alla luce. Sul Guardian si chiedono se sia veramente pizza, visto che sopra pare esserci un ananas (ma non lo è, perché come il pomodoro è arrivato a Pompei ben dopo, grazie a Cristoforo Colombo): noi non andiamo per il sottile, perché sappiamo quanto la pizza sappia essere accogliente e multietnica. Prendiamola per buona, e lo era già dai tempi dei romani.

Foto di Micah Tindell su Unsplash

In un mondo (quello occidentale, beninteso) in cui spendiamo soldi per dimagrire dopo averne dilapidati per nutrirci in modo errato o eccessivo, e dove compriamo cibo e lo facciamo scadere nel frigorifero, stiamo cercando di correre ai ripari con soluzioni varie. Nell’altra parte del mondo, al contrario, si stanno cercando di veicolare informazioni nutrizionali più sane, per migliorare la salute della popolazione.
Da noi si studia un sensore ideato da un team di ricercatori della Koç University che riesce a monitorare lo stato di alterazione del cibo. Si tratta di un device wireless e power-free applicato direttamente al cibo. In un click, ecco sullo smartphone un’analisi del deterioramento del cibo: meno cibo buttato, e solo quando è davvero scaduto, meno rifiuti e più controllo sulla salubrità di ciò che consumiamo. Ma sul tema il punto è un altro: mangiare sano è una possibilità per tutti? Pare proprio di no, visti i costi degli alimenti idealmente più salutari, inaccessibili alla maggior parte della popolazione.
L’edizione 2023 del report annuale “Broken Plate” redatto dall’ente “The Food Foundation” ha calcolato infatti che il quinto più povero della popolazione dovrebbe spendere il 50% delle proprie entrate per seguire la dieta sana consigliata dal governo inglese. L’anno precedente il valore era 43%, sette punti percentuali in meno. Questi alimenti costerebbero inoltre il doppio proporzionalmente alle calorie: £1,76 ogni 1.000 calorie rispetto ai £0,76 di altri prodotti “meno salubri”. Frutta e verdura sono le categorie con i prezzi più alti: £11,79 dollari per ogni 1.000 calorie, cibi con alto contenuto di grasso e zucchero £5,82. Il risultato è un aumento dei casi di obesità, nonché di diabete: 9.600 casi ogni anno, +19% rispetto a sei anni fa. Il report fa emergere sempre la stessa questione: la difficoltà di trovare un equilibrio tra garantire una giusta remunerazione ai produttori e rendere una dieta sana accessibile a tutti, soprattutto ai più svantaggiati.
In compenso, zone del mondo meno attente a questi aspetti stanno provando a trovare la giusta strada per educare i consumatori e rendere loro la vita più facile. È il caso del Vietnam che sta muovendo i primi passi verso la messa in obbligo dell’applicazione dell’etichetta nutrizionale in tutti i cibi e bevande venduti nel Paese, ad oggi più di metà non la riportano. Rendere le persone capaci di scegliere i cibi più adatti alle loro esigenze, ed essere trasparenti nelle vendite sono due ottimi motivi per proseguire. In India invece controlli a tappeto su khoa, chhena, paneer, ghee, burro, creme e gelati, al fine di individuare e denunciare eventuali frodi e adulterazioni commesse nella loro vendita. Con l’inaugurazione del suo centro, la Food Safety and Standards Authority of India (Fssai) ha sottolineato la sua intenzione di adottare delle politiche più severe per minimizzare sempre più i problemi di sicurezza alimentare per migliorare la salute del Paese. Il cibo è un affare di Stato, soprattutto lo è la nostra salute rispetto a ciò che mangiamo.

Foto di Brooke Lark su Unsplash

Piccola digressione sul vino, che sarebbe affare di Kantina ma qui sull’internazionale ci dividiamo i compiti. Regno Unito in gran spolvero enologico: la viticoltura è il settore agricolo che è cresciuto di più nel Regno Unito. A oggi sono in tutto 943 i vigneti distribuiti in tutta l’isola inglese, occupanti una superficie pari a 3.938 ettari, +74% rispetto a cinque anni fa. Si ritiene che nel 2032 si raggiungeranno i 7.600 ettari. Parlando della produzione, nel 2022 sono state prodotte 12,2 milioni di bottiglie, più del 130% rispetto ai volumi del 2017. Il 68% sono vini frizzanti
E ancora: la prima cantina urbana inglese London Cru ha deciso che d’ora in poi si rifornirà esclusivamente delle uve provenienti dai dodici ettari della “Foxhole Vineyard”. Al confine con Bolney Estate, nel West Sussex, questa piccola produzione, nata nel 2008-2009, possiede in tutto 20.000 piante di vite, principalmente Pinot Noir, Pinot Gris e un piccolo quantitativo di Bacchus. La vigna è stata comprata da London Cru per una cifra vicino a £690.000. L’obiettivo? Migliorare la qualità e lo stile dei vini fermi inglesi.
Per fortuna il Prosecco regge e almeno in Asia la firma Bottega, specializzata in Prosecco, sta lavorando per renderlo il perfetto sostituto dello Champagne, ormai troppo costoso e difficile da trovare. I grandi numeri faranno bene alle nostre esportazioni o rischiamo di svilire ulteriormente un prodotto già considerato cheap? Chiedetelo alle bottiglie color oro che lo contengono.

Anche in questo caso, è un affare di Stato, di marketing, di posizionamento. Non certo di bollicine.

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