Villaggi globaliÈ da quando esistono che si possono superare gli stati-nazione

Serve un’altra geopolitica, oltre i confini di quella tradizionale, perché nessuna delle grandi sfide del presente può essere affrontata da un singolo Paese, per quanto potente. Stiamo cominciando a familiarizzare con l’idea di una società civile mondiale: un saggio del Mulino perché non resti un’utopia

unsplash

Quali caratteristiche avrebbe una «società civile globale» fatta di nazioni? La serie di istituzioni non governative abbastanza forte da controbilanciare lo stato senza però impedirgli di svolgere il suo ruolo di garante della pace e di arbitro degli interessi principali […] potrebbe nella sua forma attuale rappresentare l’ordine giuridico globale.

Queste istituzioni hanno acquisito una «personalità» giuridica proprio come quelle che le hanno precedute (le chiese, le corporazioni, i comuni medievali e successivamente i sindacati), che hanno assunto o rivendicato un’individualità distinta all’interno dei singoli stati e che inevitabilmente le ha rese rivali degli stati stessi.

Secondo numerosi sostenitori dello stato-nazione sovrano esse sono quello che erano le Corporazioni all’epoca di Hobbes, ovvero «Stati minori nelle viscere di uno più grande, come vermi nelle interiora umane». Tuttavia, come egli temeva, la loro esistenza ha spodestato con successo la concezione dello stato come «persona» – giuridica o politica – unica nella società internazionale.

In casi estremi esse possono persino obbligare gli stati-nazione a rispettare le normative internazionali, come fece il Fondo Monetario Internazionale durante la Grande Recessione. Eppure, nonostante i loro grandi poteri, non hanno ancora la capacità collettiva di opporsi ad eventuali attacchi se non attraverso sanzioni economiche […].

Le istituzioni internazionali naturalmente non forniscono nemmeno i servizi sociali, le pensioni o l’assistenza all’infanzia che offrono gran parte delle nazioni, perlomeno in Occidente, e che i cittadini considerano ormai un diritto. E sebbene l’Organizzazione Mondiale della Sanità eserciti una notevole influenza, essa non può imporre politiche sanitarie né utilizzare strutture mediche comuni.

Pertanto queste istituzioni non sono, o non sono ancora, un adeguato sostituto dello stato. L’idea condivisa da generazioni di teorici dell’internazionalizzazione, da Saint-Simon a Friedrich Engels, che lo stato sarebbe un giorno diventato obsoleto e sarebbe «appassito» sembra oggi ancora più stravagante di allora.

Oggi l’internazionalizzazione, la globalizzazione sembrano smantellare lo stato-nazione. Tuttavia lo stato è una costruzione politica, un corpus giuridico, uno spazio geografico e immaginario in cui gli individui vivono e interagiscono; fornisce una misura di sicurezza, di identità e ci permette di formulare qualche ipotesi sul futuro.

Lo stato mostra un modo di vivere, come in precedenza avevano fatto, su scala più ridotta, il villaggio, la parrocchia e la tribù. Il globale non offre nulla di tutto ciò. Oggi il mondo può essere governato tanto dalle reti sovranazionali e internazionali quanto dai governi degli stati-nazione, ma ciò che queste reti tengono unito sono ancora i cittadini degli stati-nazione.

Per di più le istituzioni internazionali sono ancora amorfe politicamente, culturalmente e persino giuridicamente: possono esserci molte persone che vivono in Italia e sanno qualcosa di come si vive per esempio in Indonesia, ma ciò che accade là avrà un impatto minimo sulle loro vite (a meno che non assuma la forma di una pandemia).

Viviamo tutti, e ne siamo consapevoli, in uno spazio internazionale, tuttavia di rado sentiamo di esserne coinvolti in prima persona. Essere apolide è ancora una condizione indesiderabile. Sebbene molti abbiano affermato di essere «cittadini del mondo» da quando Diogene il Cinico lo fece per primo nel IV secolo a.C., questa è una dichiarazione di identità personale, una metafora, non uno status politico o giuridico.

Nel passato era spesso una questione di estensione. Fino a dove può spingersi la nostra capacità di immaginare l’appartenenza? […] Lo stato-nazione si è sviluppato in un periodo in cui nuove tecnologie come la stampa, la ferrovia, il telefono e il telegrafo hanno reso possibile la comunicazione – almeno virtuale – tra popoli lontani in modi mai conosciuti prima. E, come è noto, questa connessione si è ampliata enormemente negli ultimi decenni grazie all’introduzione di reti elettroniche sempre più estese.

Le distanze non hanno più l’importanza che avevano anche solo un secolo fa. Gli americani si definiscono e si sentono tali anche se essi stessi o la loro famiglia sono nati in Afghanistan o in Germania e non hanno mai visitato gran parte degli stati che compongono la loro nazione. I Galli, sebbene fossero romanizzati, non avrebbero mai detto o provato una cosa del genere rispetto ai territori dell’impero romano – anche se nel periodo della sua massima espansione quest’ultimo era solo poco più grande degli Stati Uniti.

L’estensione non è più un elemento determinante, ma lo sono l’appartenenza politica, la coesione e gli obbiettivi condivisi. Lo stato-nazione ha riprodotto con successo alcune delle caratteristiche del villaggio su più ampia scala, integrandole con un apparato giuridico e una forza coercitiva che esso non aveva mai avuto.

Ora che lo stato comincia a sgretolarsi non ci si dovrebbe adoperare affinché scompaia definitivamente, perché questo non farebbe che accrescere il potere delle multinazionali e di una rete di associazioni internazionali che, per quanto animate da buone intenzioni, non sono in grado di generare cittadinanza, identità, coesione o prestazioni assistenziali adeguate per il pianeta.

Né offrono quello che è stato chiamato «il diritto di occupazione», cioè di possedere uno spazio geografico in cui vivere e dal quale non si possa essere espulsi. Per quanto incoraggiante, la semplice buona volontà non è sufficiente; occorrono potere, autorità e un organismo capace di emanare leggi e di farle rispettare, che attualmente nessuna organizzazione internazionale possiede, nemmeno le Nazioni Unite.

Le capacità diplomatiche, militari e di vigilanza di queste associazioni, con la parziale eccezione dell’Unione Europea, sono sempre mediate dallo stato-nazione, sebbene esso oggi sia un’entità culturale, etnica e politica molto diversa da come era al suo apice nell’Ottocento e nel Novecento. […]

Il loro futuro, e progressivamente il nostro, non risiede in una nazione autonoma né in una nuova generazione imperiale, né in uno «stato civilizzatore» putiniano. Risiede, con ogni probabilità, in una forma di federazione la cui possibilità esiste da quando esiste lo stato-nazione stesso. In un certo senso lo stato-nazione moderno non è altro che il precursore più recente e più importante di un mondo di federazioni.

Sicuramente Ernest Renan la vedeva così. Egli concluse la sua celebre conferenza Qu’est-ce qu’une nation? riconoscendo che le nazioni moderne, sebbene fossero ancora qualcosa di recente nella storia e fossero diffuse ovunque, non sono eterne. «Esse hanno avuto un inizio, avranno una fine. La confederazione europea, probabilmente, prenderà il loro posto». Tuttavia aggiunse: «non è questa la legge del secolo in cui viviamo».

Da quando si è costituito lo stato-nazione sono stati concepiti molti progetti di federazione mondiale, alcuni utopistici e fantasiosi, altri animati da prudente realismo. Finora nessuno, con l’eccezione dell’Unione Europea, si è realizzato pienamente, tuttavia ciascuno di essi ne ha reso più prossima la possibilità.


Da “Oltre gli Stati” di Anthony Pagden, il Mulino, 156 pagine, 19 euro.