Post-astrazioneIl surrealismo universale di Inka Essenhigh

La pittrice statunitense, classe ’69, propone un’arte che si oppone ai dogmi anacronistici dei manifesti: alla prescrizione dell’automatismo psichico predilige un’intenzione più meditativa e riflessiva, ma non per questo meno efficace

Inka Essenhigh Studio Installation Image 2022

I paesaggi di Inka Essenhigh attingono agli archetipi e al mondo dei sogni che accomunano gli esseri umani in quanto tali. Le sue opere risultano quindi essere la descrizione di nuovi mondi possibili, anzi auspicabili. L’arte secondo lei sarebbe perciò uno sprone a vedere, a dare forma e implementare un mondo migliore. L’artista stessa, in occasione dell’acquisizione di un’opera da parte del Smithsonian American Art Museum di Washington, ha spiegato che «non ho bisogno di essere d’accordo con ciò che esce dalla mia immaginazione. Forse posso iniziare a dare forma al mondo in cui voglio vivere».

Cosa resta della pittura surrealista nel XXI secolo? Molto, considerando la rediviva fortuna della figurazione nello scenario internazionale dell’arte contemporanea. Tra i principali esponenti del surrealismo contemporaneo non si può che parlare della pittrice statunitense Inka Essenhigh. Nata nel 1969, l’artista è nota per esser stata una delle prime artiste a riportare l’attenzione alla figurazione dopo gli anni della “dittatura” dell’astrazione. In realtà il suo lavoro ha il grande merito di aver unito l’astrazione alla figurazione attraverso una rilettura dell’”automatic drawing”, processo alla base dell’indagine surrealista.

Inka Essenhigh, Blue Sycamore. Courtesy dell’artista

André Breton scriveva cent’anni fa sul Manifesto del Surrealismo che la pittura si deve basare sull’ «automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le parole, con la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero. Comando del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale». In questo modo potremmo superare ogni forma di freno inibitore non soltanto mentre sogniamo, ma anche mentre siamo svegli.

Inka Essenhigh, Earth Candy. Courtesy dell’artista

Lunghi tempi di riflessione, quasi meditativi, hanno permesso a Essenhigh di superare l’accezione più dura de Les Automatistes, di un disegno inconscio accidentale e per forza di cose “astratto”. Il risultato è perciò un tratto automatico figurativo, che attinge agli archetipi e al mondo dei sogni non dell’artista, ma dell’intera umanità. La portata di tale innovazione sta attirando un tale interesse da parte del collezionismo internazionale da essere presente nelle più importanti collezioni del mondo: dalla Tate Gallery di Londra, al Whitney Museum di New York, all’italiana Collezione Maramotti. Per questo motivo abbiamo deciso di incontrarla per comprendere meglio il suo “surrealismo universale”.

Inka Essenhigh, Blue Mountain. Courtesy dell’artista

La tua ricerca ha subito negli anni una forte evoluzione dall’astrazione dell’“automatic drawing” alla pittura surrealista. Trasformazione o cambiamento all’insegna della discontinuità?
Il disegno automatico dei primi anni ha liberato la mia immaginazione. Non dovevo avere un motivo, un pretesto, per iniziare a dipingere. Potevo semplicemente godermi le forme che mi venivano in mente. Solo più tardi, realizzai che l’arte aveva il potere di plasmare il mondo, che qualsiasi cosa dipingessi era un seme nuovo nel mondo, in primis per me stessa. Volevo un’arte che rendesse felice me e le persone con cui la condividevo. Ho capito che non bastava il gesto. Ho perciò iniziato a creare bellissimi paesaggi.

Ci racconti meglio il tuo processo creativo?
Immagino un’esperienza positiva, che mi dia gioia, come essere in spiaggia con la bassa marea quando il mare è calmo e il sole è basso nel cielo. Sento gli odori, respiro l’aria e soprattutto sento e percepisco la luce di quei momenti. Poi mescolo alcuni colori che meglio catturano quella luce e comincio a dipingere qualunque immagine mi venga in mente, in fondo è anche questa una forma di pittura automatica. Dipingo con vernice smaltata che mi permette di cambiare e perfezionare i dipinti quanto mi piace, senza fine.

Perciò la tua arte resta il risultato di un “impulso” da analizzare a livello psicanalitico?
Può sembrare strano, ma nel mio lavoro non penso ci sia qualcosa di veramente personale. In realtà credo di cercare il senso della realtà, che esiste nella mente di tutte le persone. I miei paesaggi sono universali e non ci sono messaggi nascosti. Io cerco di mostrare mondi immaginati in cui chiunque può entrare. Più che impulso però io parlerei di “istinto”: l’immagine non arriva a me in modo impetuoso e rapido. Anzi, tutti i miei dipinti richiedano un mese o due per essere realizzati, a volte di più. Alla fine di questo lungo processo mi sento come se ogni immagine o luogo che dipingo sia un qualcosa che è stato con me e in me per lungo tempo, da sempre.

Hai un amore per il colore e la natura: da dove viene questo stato d’animo?
Penso che derivi dal mio desiderio di rilassarmi, godermi il mondo e ricercare la felicità. Mi piace anche l’artificiosità delle creazioni umane e a volte ho dipinto questo, ma oggi vivo il momento e il piacere della natura mi parla davvero.

Inka Essenhigh, Flower King. Courtesy dell’artista

La tua pittura è fortemente tridimensionale: qual è il tuo rapporto con i volumi e con la scultura?
Questa è una domanda interessante perché, sebbene non abbia mai sperimentato la scultura, penso alle forme sempre in tre dimensioni. Quando dipingo qualcosa non sto facendo un’approssimazione sfocata di qualcosa che vedo, do letteralmente vita a qualcosa di cui ho come un prototipo nella mia testa. Per riportarlo sulla tela devo quindi “girarlo” e immaginare come sarebbe “fisicamente” davanti a me. C’è tridimensionalità e persino – spero e credo – un’esperienza tattile. Ciò premesso, non c’è una logica nei miei dipinti per cui è identificabile una specifica origine o fonte di luce. Tutto ciò che viene da me ritratto ha spesso una propria luminescenza interiore e questo può riflettersi su altri oggetti.

I tuoi dipinti catturano lo spettatore, che viene “trasportato” all’interno dell’eden da te dipinto. Nel grande formato la tua energia sembra esprimersi al meglio: sbaglio?
Vorrei dare vita a un’esperienza totalizzante per lo spettatore, che includa in qualche modo tutto il suo essere, anche corporeo. Quindi il dipinto deve essere abbastanza grande per instaurare una relazione con il corpo di una persona, ma poi di nuovo, non più grande del necessario, perché non deve sovrastarlo. Man mano che cresco, mi rendo conto che la dimensione ha un ruolo fondamentale: ricerco perciò sempre più che i miei dipinti occupino “soltanto” lo spazio necessario per l’esperienza.

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