Ha fatto il giro del mondo la vicenda del Titan, sommergibile statunitense che qualche settimana fa si è immerso nell’oceano Atlantico con l’obiettivo di avvicinarsi il più possibile al relitto del Titanic. Prima dato per disperso e poi il tragico epilogo. Oltre l’apprensione istintiva che si innesca – o dovrebbe innescarsi – quando sono coinvolte vite umane, a trovare spazio c’è anche la curiosità, talvolta morbosa, per come si concluderà la vicenda e per il carattere eccezionale, sui generis, di quest’ultima.
Perché, per la maggior parte di noi, parlare di fondali oceanici è sinonimo di ignoto, di un universo sconosciuto ma dall’attrattiva atroce. D’altronde se per l’essere umano la terraferma non rappresenta quasi più un’incognita potenzialmente esplorabile, è il mare a essere diventato l’orizzonte verso nuove scoperte ed esperienze, non solo scientifiche. La diffusione del turismo marino e subacqueo infatti ha reso mainstream la fascinazione per il mare e tutto ciò che a esso è collegato, permettendo a sempre un maggior numero di curiosi di poterne esplorare le potenzialità.
«La subacquea ricreativa nasce come disciplina dopo la seconda guerra mondiale, con lo sviluppo del primo apparato in grado di far respirare le persone sott’acqua. Da lì in poi il settore ha avuto una crescita esponenziale, anche in Italia la subacquea ricreativa è una pratica diffusissima» spiega Simone Montano, ricercatore al dipartimento di Scienze dell’Ambiente e della Terra (Disat) e docente di Biodiversità ed ecologia marina dell’Università Milano-Bicocca.
Senza freni ed estremamente redditizio: in Messico, con 11.122 chilometri di coste, il turismo marino genera ogni anno settecentoventicinque milioni di dollari, quanto il settore ittico nel Paese. Un indotto impressionante che, secondo le stime, entro il 2030 darà lavoro a circa otto milioni di persone muovendone tantissime altre: secondo l’UN World Tourism Organisation nel 2019 i turisti internazionali hanno raggiunto quota 1,4 miliardi.
Ma trasformare il mare, gli oceani e le coste in un prodotto di massa sarà, sul lungo termine, sostenibile a livello ambientale? Mentre secondo gli scienziati il novanta per cento delle barriere coralline saranno distrutte entro il 2050 a causa dell’inquinamento degli habitat di appartenenza, il processo di massificazione del turismo marino sembra ormai inarrestabile.
Soprattutto in quelle zone in cui la densità di turisti spinge a rivoluzionare gli assetti della natura, modificare l’ambiente per offrire un’esperienza apparentemente impeccabile. È il caso delle Maldive, isola strettamente dipendente dal turismo e che rischia di soccombere a causa di una cementificazione forsennata ed escamotage insostenibili.
«Negli ultimi dieci anni la situazione delle Maldive è sicuramente peggiorata, anche a causa della land reclamation. Si tratta di una pratica con la quale i maldiviani ingrandiscono la dimensioni delle proprie isole sottraendo spazio all’oceano, provocando un danno fisico all’ambiente corallino», spiega Montano. Annullare gli equilibri per crearne altri mentre, sullo sfondo, il cambiamento climatico si muove inesorabile disegnando nuovi e imprevedibili pattern. Il surriscaldamento globale, l’innalzamento del livello del mare, eventi climatici sempre più estremi: solo alcuni anelli di una reazione a catena che si ripercuote non solo sui già vulnerabili ecosistemi marini, ma anche sul turismo in sé.
L’entità del problema spinge alla ricerca di nuove soluzioni, anche in Europa, continente in cui il turismo marino gioca un ruolo di grande importanza. L’iniziativa EU Blue Growth, in questo senso, mira a normare i settori che potrebbero avere un’influenza evidente sul turismo. Dalle regolamentazioni della pesca comunitaria alle iniziative per acque pulite; il tentativo è quello di promuovere la circolazione di idee e soluzioni per una crescita sostenibile e strategica. Iniziative come la creazione di aree marine protette, a livello europeo, aiutano a riguadagnare un controllo sugli ambienti che il cambiamento climatico sta rapidamente assumendo, soprattutto in quelle aree in cui il turismo è finanziariamente fondamentale.
Un recente studio ha preso in esame cinque isole europee (Sicilia, Isole Baleari, Canarie, Malta e Cipro) che secondo gli studiosi ben rappresentano, per condizioni ambientali di partenza e vulnerabilità climatica, i potenziali impatti che il cambiamento climatico potrebbe avere sull’ecosistema marino europeo.
Alla luce dei criteri analizzati, Cipro risulta essere l’isola più a rischio tra quelle indicate; per tutte, però, gli effetti del cambiamento climatico inciderebbero esponenzialmente sulla qualità della vita, situazione finanziaria dell’isola e dei propri abitanti. «Per mitigare gli effetti del cambiamento climatico purtroppo ci vuole ben altro, poiché gli effetti si sentono a prescindere dalla protezione degli habitat o dalle immersioni praticate in acqua. Che si possa fare di più è sempre vero, intanto però in Italia si tutela l’ambiente marino in maniera adeguata, anche attraverso i piani europei», sostiene Montano.
Se è vero che non sarà un’immersione a spostare le sorti degli ecosistemi marini, necessitiamo di un cambio di paradigma. Mentre le esperienze estreme sono ancora di nicchia bisogna partire dalle pratiche più comuni, adottando un approccio più educativo che ludico. Una buona dose di consapevolezza è quello che sta alla base della citizen science, una sinergia tra scienza e pubblico che mira a creare una comunione d’intenti.
«Si sfrutta l’interesse innato delle persone e la loro volontà di capire lo stato di salute dell’ambiente per sviluppare dei progetti che coinvolgono le persone che non hanno background scientifici», afferma Montano. Migliorare la nostra comprensione degli ambienti marini e aiutare la scienza a tendere una mano, l’ultimo tentativo prima di trovarci con l’acqua alla gola.